"Calendimaggio" è il nome di una antica festa pagana che celebra l'arrivo della primavera, ma per chi è di Arese, Rho e dintorni, "Calendimaggio" è inevitabilmente la rassegna che, da oltre 25 anni, coinvolge centinaia di ragazze e ragazzi delle scuole secondarie di primo e secondo grado nella scrittura di poesie e racconti.
Parole e versi che aiutano a entrare in contatto con emozioni, pensieri, riflessioni, non sempre facili da processare soprattutto a quell'età.
E il risultato è un lungo dialogo che attraversa le generazioni, qualcosa di bello e importante che lascia il segno e tocca le nostre corde più intime.
L'invito che vi facciamo è di lasciare fuori il rumore e immergervi in questo piccolo mondo raccontato dai nostri ragazzi. Un modo, forse, per vedere più da vicino la loro essenza e farne tesoro.
Luca Nuvoli, Sindaco di Arese Denise Scupola, Assessora alla Cultura
Maria Grazia Cislaghi - Già dirigente della biblioteca comunale di Arese, collaboratrice di numerose attività culturali, tra cui la presentazione di libri.
Adriano Molteni - Scrittore e poeta premiato in Italia e all’estero per le sue opere, membro di giuria di premi nazionali, ha ideato e realizzato in team il Palio della Città di Rho nel 1996.
Mattia Pedota - Docente universitario di Economia Industriale al Politecnico di Milano e alla MIP Business School e consulente freelance. I suoi articoli, conseguenti le attività di ricerca scientifica, sono stati pubblicati su riviste scientifiche internazionali.
Piero Airaghi - Diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Brera, organizzatore e animatore di iniziative culturali, è fondatore del Premio Nazionale di Pittura Il Pomero, ed è stato insignito del premio “Ambrogino d’oro” dal Comune di Milano.
Leo Caenazzo - Plurivincitore del concorso Calendimaggio. Studente universitario.
Alice Serrao - Si è laureata con lode in Filologia Moderna presso l’Università Cattolica di Milano. Ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Guido Gozzano. Nel 2021 ha pubblicato “Linea di cattedra”. Fa parte dell’AGCAM e della Giuria del Concorso “Calendimaggio”. Insegna letteratura italiana e latina al Liceo di Saronno.
Immobili nella vana speranza
di un'altra esistenza,
ingiusta e spietata nel destino la violenza.
Forse nessuno può rimediare
e rimane fioca la possibilità di rinascere.
Costretti a giacere in balia di uomini illusi,
mentre un bimbo giocando si diverte
o riposa ad occhi chiusi.
La gente assorta e immersa in belle parole o
davanti a buffe immagini inutili.
Una madre accompagna il figlio
nel suo fatuo cammino,
insegnando affascinanti concetti
di giustizia e lealtà,
dire sempre la verità.
Noi rinchiusi tra le sbarre
di un incancellabile passato,
soffrendo in un mare di fuorviante utopia.
Del tempo,
degli uomini,
della crudeltà ingannevole,
dell'innocenza o di uno spazio errato,
dell'egoismo che rovina l'esistenza.
Devastati, deboli e impauriti,
siamo disarmati, incatenati,
coraggiosi ma distrutti.
Vagabondi nel ricordo di ieri,
semplicemente prigionieri.
Giorgia Segat
Scuola Media Paolo VI
La vita è costellata di astrazioni ed edulcorazioni, illusioni collettive che poggiano, nella migliore delle ipotesi, su sensibilità intellettuali e artistiche comuni, e nella peggiore su mere convenzioni perpetuate acriticamente. Ciò costituisce una superficie coesiva e confortante su cui fluttuare, ma la realtà nel suo complesso va ben oltre, e spesso lo fa nei modi più difficili non solo da accettare, ma anche solo da percepire attivamente. Delineare il dolore e la devastazione richiede coraggio e personalità, soprattutto perché è ciò che più si presta alla spersonalizzazione: quasi sempre se ne traccia solo un simulacro, pallido veicolo di coesione sociale, per poi alienarlo attraverso la condivisione e la contemplazione da lontano, al sicuro dietro un foglio e l’approvazione che ne scaturirà. La poesia è però l’esatto opposto, e, ora più che mai, il mondo ha bisogno di qualcuno che lo intuisca. Spero che a questo componimento, straordinariamente autentico e profondo per un’autrice così giovane, ne seguano molti altri, e che altrettanti possano trarne ispirazione.
Mattia Pedota
In questa solitudine di giorni spenti,
sento la mancanza di te, come un vuoto
che l'anima riempie di sogni infranti.
Nel silenzio della notte, il tuo riso
è un'eco lontana che sfiora appena
le corde del mio cuore, ormai taciuto.
I giorni scorrono come fiumi senza riva,
e io navigo nelle acque della nostalgia,
alla ricerca di un porto che non c'è.
I tuoi occhi, come stelle cadenti,
hanno lasciato la loro luce
a illuminare le strade vuote della mia vita.
La tua assenza è un'ombra lunga
che si proietta sui miei pensieri,
un enigma senza risposta, senza fine.
Mi perdo nei ricordi, come foglie
portate via dal vento della memoria,
e cerco la tua presenza nell'assenza.
Ma tu sei lontano, oltre l'orizzonte
dove il cielo bacia la terra,
e io rimango qui, a ripensare te,
nella dolce melodia della mancanza.
Si ripeteranno quei bei momenti
vissuti insieme?
John Castellani
Scuola Media S. Pellico - Arese
Che dire? Ogni verso di questo scritto trasuda poesia. Una poesia che congiunge l’anima con la quotidianità. La natura disegna lo stato d’animo del poeta, l’assente lo troviamo presente in ogni terzina: in un periodo che si snoda fluido e carezzevole, da intontire. La padronanza della lingua è più che buona e l’ultima quartina incanta e non posso fare a meno di rileggerla:
Ma tu sei lontano, oltre l’orizzonte, dove il cielo bacia la terra e io rimango qui a ripensare te, nella dolce melodia della mancanza.
Sensibilità e talento premiano questo scritto. Ne aspetto altri, senza premura, ma con speranza.
Adriano Molteni
Sui fogli bianchi danza l'acquerello,
sfiorando la carta con lieve pennello.
Colori che si mescolano come sogni,
narrano storie in sfumature.
Azzurro cielo che si riflette nell'onda,
verde speranza che la natura risponda.
Rosso passione come un caldo tramonto,
giallo sole che abbraccia ogni momento.
Sotto il pennello, prende vita la scena,
sfumature delicate, la tela si fa piena.
Blu profondo come un notturno mistero,
sfiori di rosa, dolce e leggero.
Nell'acquerello, il mondo si dissolve,
tra acque trasparenti e luce che evolve.
Katia Popio
ICT. Grossi - Mazzo di Rho
In questa poesia viviamo la magia della bellezza dell’acquerello, che trasmette i suoi colori dissolti in acqua trasparente, uniti poi con dolcezza alla nostra emozione, che si risvegliano in queste “vibrazioni” come musica trascendentale.
La nostra fantasia in questo colore dissolto e abbracciato dalla luce ci porta “un’onda d’amore” e la nostra emozione diventa “poesia”.
Van Gogh diceva “che cosa splendida l’acquerello per esprimere i miei soggetti circondati dall’aria, che sembra poterli toccare”.
Mentre in questa poesia ci viene donato quanto di più vero e bello si possa trovare nell’acquerello: i colori che si mescolano con i sogni e narrano storie in “sfumature”.
Piero Airaghi
Quando posso vengo a te
dove il mondo si fa vasto.
La mia montagna, principessa dell'eterno canta
l'aria leggera il susseguir delle stagioni.
È primavera
coccola il sole la nuda roccia, i prati verdeggianti
pennellate colorate
Eden sospeso tra terra e cielo.
È estate
natura in festa, un lago scintilla
profumo di resina, un caldo abbraccio
la notte stellata si fa tranquilla.
È autunno
aria fresca, rami spogli, profumo di castagna
nella quiete del bosco segreti si celano
un fungo si schiude in un mondo nascosto.
È inverno
l'incanto dolce, lento
è pronto a scaldare la sua pelle
con un manto color d'argento.
Alessio Bisceglia
ICT. Grossi - Mazzo di Rho
“Quando posso vengo a te” dice il poeta. Ogni volta che ne ha la possibilità, il poeta si reca in montagna, luogo di lunghe passeggiate, di distese innevate e paesaggi pieni di natura e di incanto. Questo inizio della poesia richiama alla mente un altro testo letterario, la lettera in cui Petrarca racconta la salita al monte Ventoso. Un’ascesa che chiaramente nasconde un significato metaforico, al di là del senso puramente letterale. La montagna stessa, infatti, con le sue salite, diviene metafora del superamento delle proprie fatiche, ma anche cammino di purificazione e di avvicinamento al cielo. Basti pensare a Dante. Questa poesia, ben costruita in equilibrate quartine, rievoca tutte le stagioni, procedendo per accostamenti e analogie: così la montagna è “principessa dell’eterno”, mentre l’estate richiama “la natura in festa”. Il ritmo è dolce e non mancano rime interne, come “primavera” “leggera” che conferiscono delicata musicalità al testo.
Alice Serrao
La vita è un viaggio, un'avventura senza fine
Piena di alti e bassi, di sorprese e destini
Camminiamo tra le strade del tempo
In cerca di significato e di amore intenso
I giorni si susseguono come le onde del mare
Portandoci verso luoghi lontani e nuove terre
Incontri fugaci, sguardi che si incrociano
Echi di risate, abbracci che ci riempiono
La vita è un caleidoscopio di emozioni
Colori brillanti e sfumature sottili
Frammenti di felicità e lacrime nascoste
Che compongono il mosaico della nostra storia
Siamo tutti protagonisti di questo grande spettacolo
Attori e spettatori di storie intrecciate
Ognuno con il proprio ruolo da interpretare
Nella danza eterna di vita e morte, speranza e disperazione
I giorni si accavallano come note sulla partitura
E noi siamo i musicisti che suonano la melodia dell'esistenza
Improvvisando, componendo, lasciandoci trasportare
Dalla sinfonia cosmica che ci lega a tutto ciò che è vivo
La vita è un istante fugace, un eterno presente
Un'opportunità per amare, crescere, perdonare
Un'occasione per abbracciare la bellezza del mondo
E trovare la nostra voce nell'immensità dell'universo
E così danziamo sul filo sottile del destino
Affrontando le tempeste, godendo dei tramonti
Accettando la caducità di tutto ciò che abbiamo
E celebrando la magia di ogni istante che ci è concesso
E in questo balletto infinito, ci aggrappiamo alla speranza
Che, anche di fronte all'incertezza e al dolore
La vita continui a tessere il suo magico intreccio
Fino a quando non saremo pronti a cedere il nostro posto al tempo.
Lorenzo Del Duca
Itis Cannizzaro - Rho
E’ una poesia ben strutturata, tecnicamente migliorabile, ma già si fa notare per le sue quartine; sicuramente ci sono margini per sollecitare maggiormente il ritmo, lavorando sulla metrica.
L’analisi che impegna il poeta è condivisibile e ogni concetto si presenta con un contenuto concreto di realtà da apprezzare e di sensibilità che ci porta, a volte, sull’orlo della emozione.
Alcune affermazioni riportano al ruolo che l’uomo ricopre come coprotagonista del vivere nelle sue fasi più estreme e delicate.
Alcune convinzioni colpiscono, non perché nuove, ma per il fatto che ci fa tutti soggetti e oggetti della grande “sinfonia cosmica” e “dell’immensità dell’universo”.
L’uomo è sempre capace di affrontare e vincere le tempeste, ma anche di godere della bellezza che la Natura ci mostra, pur trattenendo sempre nel cuore la propria limitatezza, la provvisorietà e la labilità di tutto ciò che lo accompagna nella esistenza.
La chiusa ci conferma una certa maturità del poeta, il quale spera “che la vita continui a tessere il suo magico intreccio, finché non saremo pronti a cedere il nostro posto al tempo”.
Alla prossima poesia, dunque.
Adriano Molteni
Tra le righe del silenzio, il mio respiro incerto,
sguardi penetranti, pesante il mio sguardo deserto.
In una stanza di parole inespresse, il disagio fiorisce,
come petali appassiti, la confusione si annida.
Un nodo invisibile stringe il cuore,
mentre il tempo si allunga, un lento dolore.
Parole non dette danzano nell'aria,
come farfalle intrappolate, in una rete di agonia.
Sento il disagio tessersi attorno a me,
come un'ombra persistente, un'ansia che non cede.
In quella situazione di incertezza,
mi perdo, cercando una via di luce nella tristezza.
Iacopo Zhang
Itis Cannizzaro - Rho
Le parole sono il nostro strumento per interagire con la realtà. Attraverso le parole noi possediamo il mondo, stringiamo rapporti con gli altri ed esprimiamo noi stessi. Ma cosa succede quando le parole si incastrano e restano intrappolate nella gola? Di questo parla la poesia “disagio”, che in una sola parola, già dal titolo, riesce a catturare l’emozione che vuole comunicare. La voce che non esce stringe il cuore di “un nodo invisibile”, allarga “un’ombra persistente” che invischia l’animo del poeta, facendolo sentire intrappolato. Risulta in questo senso efficace l’immagine della farfalla come libertà intrappolata. Infatti, quando non riusciamo a dire il nostro mondo interiore, sentiamo il silenzio come una rete che ci invischia e tormenta. Tuttavia, le parole di questa poesia risultano ben scelte e riescono a evocare nel lettore emozioni, creando sintonia e comunicando efficacemente non solo il senso di smarrimento che si prova da adolescenti, ma anche la luce sempre accesa, la speranza che non si perde mai, neanche nell’incertezza.
Alice Serrao
Nella città notturna avvolta dal mistero,
ombre danzano tra luci in uno sguardo severo.
Edifici s'innalzano come torri d'oscurità,
tra viuzze segrete, si cela la verità.
Le strade, come serpenti nel buio sinuose,
tracce di storie antiche, avventure nascoste.
Riflessi d'illuminazione, frammenti di luce,
svelano un'architettura che l'anima conduce.
Al chiarore lunare, la città svela i suoi drammi,
tra vicoli dimenticati e vetri che riflettono gli affanni.
Nel buio c'è un'atmosfera carica di segreti,
dove l'ombra stessa racconta i suoi diletti.
Eppure, in questa oscurità, un fascino profondo,
la città buia culla storie, tesori nel suo fondo.
Sotto cieli stellati, tra l'urbanità e il mistero,
la città buia sfida il sonno, sussurrando l'incanto vero.
Gabriele Conti
Itis Cannizzaro - Rho
La città si dirama dinanzi a noi, verso dopo verso pare dipanarsi una trama pennellata dopo pennellata, tratti sinuosi per le strade buie, segni robusti come mura d'una torre, e angoli decisi e ripidi a modellare i riflessi di luna. Il poeta sente la città di cui parla, ne tasta le pietre e ce ne restituisce le imperfezioni, le zigrinature; è però abile anche nel mostrare celando, le vie prendono forma adeguandosi alla sensibilità del lettore, ognuno ne trae delle chiare ambientazioni, ma sfuggendo all'inequivocabilità di una fotografia. Le suggestioni conciliano la lettura, il ritmo aiuta a vivere la rete di vicoli come un solo corpo, a sentire le arterie pulsare sotto i ciottoli, a lasciare dei segreti destinati all'oblio. Forse l'autore potrebbe stendere più ampie le ali distaccandosi dalla rigidità delle rime così poste, ma la penna è fine e il ritmo avvolgente.
Leo Caenazzo
Atomi: microscopiche particelle
che costituiscono la materia.
Persone: microscopici individui
che costituiscono la società;
entrambi, considerando il contesto totale,
singolarmente si posson trascurare.
Si uniscono per formare gruppi, o molecole,
a seconda di quanto stretti siano i loro legami
stanno più vicini o più lontani;
e quando ciò che li tiene uniti si spezza,
giacchè è più facile infrangere l'agglomerato
che la componente stessa,
vagano per vie diverse l'una dall'altra;
si scontrano, s'intralciano,
persino si riuniscono talvolta .
Ma forse forse una grande differenza c'è:
noi non siamo indistruttibili.
E' un fatto così ovvio e naturale
che la gente tende a dimenticare.
Magari ci conviene sperare
che l'uomo un giorno non trovi
il modo di distruggere anche la materia.
Irene Sorrentino
Itis Cannizzaro - Rho
Apro un dialogo con l’autore di “Atomi o persone”.
Il nostro corpo è composto da tanti atomi che formano persone; questo processo viene descritto da migliaia di parole di studi ed altro. Ma le risposte ai perché e alle domande non le troviamo nella scienza ma nella filosofia e nella religione. Nella lettera enciclica “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI sta scritto “ .tutti gli uomini sentono la gioia di amare in modo autentico, amore e verità non ci abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo .”.
L’uomo, il più completo e perfetto degli esseri viventi, dotato di ragione, di anima immortale, lotta costantemente sulla natura per dominarla e con se stesso per farsi migliore.
Cito l’umanesimo (sec. XIV-XV) e il rinascimento (sec. XV-XVI) ove rifiorirono studi classici delle lettere e per l’animo umano.
Tutti speriamo che l’uomo tenda sempre a crearsi un mondo nuovo e questo lo contraddistingue dagli animali ed è un’espressione essenziale dell’immagine di Dio in lui.
Piero Airaghi
Nel buio, l’umanità vaga
sui binari della follia
marcia senza sosta,
la mente persa
nei suoi stessi budelli
di cunicoli labirintici,
il corpo pesante
martoriato da mille rapaci,
amato e disprezzato
viene spinto ai limiti
nella danza sfrenata
della giornata.
Nel buio, l’umanità vaga
a occhi chiusi
su un campo minato,
con auto di lusso
o a piedi scalzi,
strappa più fiori possibile
dalle ferite aperte
del terreno prosciugato;
li raccoglie e li conserva
in un vaso blindato
per un futuro incerto.
Nel buio, l’umanità vaga
gira e rigira in tondo,
una vasta quantità di pesci
prigioniera
del suo stesso schema,
un parallelepipedo cavo
pieno d’acqua torbida.
Tra le sue quattro pareti
e bollicine di aspirazioni,
l’umanità boccheggia
nella ricerca di un senso,
galleggia rassegnata
tra realtà e menzogna,
tra finzione e verità.
Sofia Borsani Sogni
Liceo Falcone e Borsellino - Arese
Questa poesia ha il notevole pregio di unire profondità concettuale e coerenza stilistica, restituendo un quadro di metafore cupe e aride, ma al contempo intense e intellettualmente brillanti. La generalità del discorso è veicolata in maniera impeccabile, accostando estremi opposti attraverso immagini brevi e incisive, mai didascaliche e tanto meno banali. Apprezzabile è anche la reiterazione del primo verso, quasi impercettibile, che conferisce al componimento organicità senza appesantirlo. Passaggi come “amato e disprezzato”, “dalle ferite aperte del terreno prosciugato”, e “bollicine di aspirazioni” rappresentano picchi di sensibilità poetica in un testo ben congegnato su tutti i livelli.
Mattia Pedota
E mentre è ancora oggi
gira il vortice frenetico, ansioso, rabbioso
di tutto quello che si sarebbe dovuto fare
nell’ossequio di ciò che “è giusto”;
e mi domando dove vada questa terra
che sotto ai piedi d’ognuno
brilla, scuote, vibra
e s’illumina di mille e mille pepite d’oro,
a salutare ciò che se ne va,
ciò che di vecchio ci deve lasciare
per far spazio alla storia che sarà.
Mentre è ancora oggi
ti si chiede dove andrà la tua storia,
dove correrà il tuo essere,
dove vivrà il tuo vivere;
ti si chiede quanta rabbia proverai,
per quanti amori soffrirai,
quanto sangue scorrerà nelle tue vene.
Mentre è ancora oggi
i tuoi capelli scompigliati,
i tuoi occhi stanchi,
le tue gambe tremanti
continueranno a crescere, vedere, camminare
e cambierai scarpe, taglio di capelli, occhiali
eppure, rimarrai te stesso.
Mentre è ancora oggi
ti distrugge passo dopo passo
questo crescere continuo
che di un piccolo bambino
ha fatto un incredibile uomo.
Mentre è ancora oggi
sarà già domani, senza che te ne renda conto.
Mentre è ancora oggi
non ti renderai conto che moriranno i ricordi,
le speranze, i dubbi.
Eppure, tutto sarà domani
e domani sarà vicino al futuro
ma per ora, ricordati,
di fare un capolavoro
di ogni cosa che ti accade
mentre è ancora oggi.
Nicolò Christian Terrana
Liceo Classico C. Rebora – Rho
Ansia, rabbia, frenesia sono gli stati d’animo che colpiscono il poeta che sitrova sulla lama della bilancia che chiude un anno per aprirne un altro.Passato,presente e futuro stanno in una data che segna per il calendario la fine di unanno vissuto, ma che non ha dato risposte esaustive e che darà ancora vita adun’esistenza che vagamente sarà. E in questo “sarà” c’è tanta indeterminatezza,anche se si continuerà a crescere, a vedere, a camminare. E in questo vivere, sicambierà ciò che si indosserà, ciò che darà un taglio alla propria figura, madentro si rimarrà sempre se stessi. Il divenire per il poeta è limitato a ciò cheriveste l’uomo, senza però cambiarne la sua essenza, cioè il suo modo dipensare e conclude con l’invito di non perdersi in fughe in avanti, verso unfuturo incerto, ma di valorizzare e far bene ciò che si affronta ogni giorno inquesta vita. Poesia esistenziale dunque che appare influenzata dalla filosofia diEraclito dove ogni cosa è soggetta al tempo e alla trasformazione. Ovvero: tuttociò che esiste, che sia visibile o meno, cambia e nulla può fermare questa leggeo principio. Dobbiamo però tenere sempre presente i latini che si rifugiarononel “carpe diem, quam minimun credula postero” e cioè: “ Afferra il giorno,affidandoti il meno possibile al domani.”
Eh sì! La vita è pur sempre concretezza.
Adriano Molteni
Alice, mormorami l'ultima volta
cosa hai visto prima di morire,
se rimaneva ancora del caffé
o il pianto aveva esaurito ogni tua
lagrima dal fondo del bicchiere:
a vagare nelle stanze più fredde
rimane solo l'ombra di ciò che mi
illudevo di salvare. Alice, svelami
prima di sparire i moti del dolore,
se resistono ancora alla vita
o il pianto li ha celati in ogni tuo
sospiro: a gridare nelle notti più
scure rimane solo l'attimo di ciò
che credevo sopra tutti odiare.
Non sbaglia l'alba a lavare scalza
l'animo d'ogni nostro affanno, se
tiepido si svelerà poi il tramonto
per nutrirlo coi suoi flutti scuri?
Alice, conducimi quieta a te.
Non chiedo altro che morire
soffocato
nelle tue dolci labbra.
Ludovico Sebastian Andreoli
IISS B. Russell – Garbagnate Mil.
A una prima lettura, di questa poesia, colpisce l’apostrofe con cui comincia ilprimo verso, “Alice”, ripetuto poi complessivamente tre volte, in mezzo al testoe alla fine. Rivolgersi direttamente a un “tu”, che ha un nome ben noto e non aun “tu generico” come accade in altri casi, ha l’effetto di aumentare ilcoinvolgimento del lettore, che segue gli accadimenti attraverso il ritmo deiverbi all’imperativo. Mentre leggiamo, siamo spettatori di un dolore languido,che forse si esaurisce nel “caffè”, nel “fondo del bicchiere”, elementi concretiche ancorano la poesia alla contingenza di una stanza fredda, là dove, invece,altre espressioni (come “l’alba” che lava “scalza” ogni affanno) appaiono comeimmagini più vaghe e sfuggenti e ci riportano al tepore di un tramonto. Neldispiegarsi del testo è possibile cogliere due movimenti opposti: un tu e un io,un ambiente freddo e un ambiente caldo, di cui si è già detto; ma anche vita emorte, salvezza e smarrimento, alba e tramonto. I contrasti si risolvono, infine,nel bacio della chiusa in cui è il poeta, e non più “Alice” come nei versi iniziali,a chiedere di morire.
Alice Serrao
I ricordi volano
come stormi di gabbiani
sull’orizzonte di un mare
che ingloba il sole.
Scappano e
si staccano
dalla nostra pelle
come le vecchie squame
di una lucertola.
Libere si fanno cullare
dal dolce vento
che crea vortici armoniosi
e giri
e giri ingrovigliati
che si srotolano nei sospiri.
Non ha il cappio
il soffio
che limpido sposta
quello che incontra,
ma la nostra ingenua mente
che fiducia nel sudore
il fondere
le memorie
alla pelle.
Matteo Quistaini
Liceo E. Majorana – Rho
Il corpo è il mezzo con cui facciamo esperienza del mondo; e il corpo puòessere potente. Per questo i ricordi “si staccano” dalla pelle del poeta “come levecchie squame/ di una lucertola”. Una felice similitudine che ci restituisce ilcalore dell’estate, il bianco bruciacchiato della pelle che si solleva e chediventa, qui, poeticamente, il tessuto epiteliale di un ricordo estivo da sbucciarevia. Cambiare stagione e cambiare pelle, nonostante quella “fiducia nelsudore”. Cosa ha scottato “l’ingenua mente” del poeta? Il sole? l’amore?Difficile è anche accostare un correlativo oggettivo a quel “soffio” senza“cappio” o ricostruire se la pergamena sia effettivamente il corpo su cui siinscrivono i nostri incontri e le nostre esperienze. Per questo, la forzaespressiva del testo risiede proprio nel fatto che suggerisce, ma non spiega ilproprio significato, lasciando al lettore l’arduo compito di ricomporre “lememorie” che si fondono “alla pelle”.
Alice Serrao
Chi lo conosceva bene credeva che il pianoforte di Jean Roux condividesse le corde con la sua anima; per quanto riguarda quei pochi che lo udirono suonare invece, non indugiarono mai prima di affermarlo con certezza.
Dicono che la bellezza perisca più lentamente lontano dalle grandi città.
L’uomo tende ad avvizzire meno precocemente se ha l’accortezza di preservare la sua iride dal grigiore delle industrie; a coloro che non sono in grado di farlo non rimane che osservare di giorno in giorno il cielo colare sull’asfalto rovente e, con lui, l’ombra di un individuo ormai estraneo al proprio io che, eternamente inchiodata al suolo, pare spartirsi il destino con lo stesso.
A Jean Roux le metropoli ricordavano la plastica, un ripugnante, nauseabondo mare di plastica; a chi aveva la sfortuna di annegarci ogni giorno, pertanto, non conveniva sperare in un epilogo gioioso al termine delle proprie vicende né, tantomeno, in una grande storia da raccontare ai posteri.
Jean pensava alla plastica incessantemente; con frequenza maggiore nel corso della mattinata, durante la pausa pranzo e alla vista dei sorrisi smaglianti dei suoi colleghi, tirati a lucido come vetrine di negozi di alta moda; forse impazienti di ostentare un qualche successo lavorativo nel tentativo di sopperire alla condizione di totale annullamento in cui erano ormai soliti vivere. Per quanto ciò lo irritasse, Jean Roux era fatto della loro identica sostanza e pertanto non poteva permettersi la presunzione che gli avrebbe consentito di biasimarli.
Quella sera, nel percorrere il tragitto verso casa, l’odore della città lo nauseava più del solito; quel tanfo provocava a Jean un malessere così viscerale da indurlo spesso a domandarsi se esso non potesse essere frutto della sua immaginazione; trascorreva giornate intere ad arrovellarsi sulla questione, ma al momento di giungere ad un esito la risposta a questo interrogativo, per un motivo o per un altro, risultava quasi sempre essere affermativa.
Giunto a due passi dal suo appartamento, mentre frugava nelle tasche dei jeans sgualciti alla ricerca delle chiavi del portone, sembrò essere catturato dal volteggiare delle foglie, ormai quasi appassite, intente ad inseguirsi amoreggiando col più flebile soffio di vento che, come il bacio di un amante a tarda notte, pareva donar loro una vita inevitabilmente effimera, ma sufficiente a vestirle d’un rosso mai stato così acceso.
A contaminare quel fugace istante furono le scie chimiche provenienti dalle fabbriche situate poco lontano da quella strada; Jean pensò che chiunque credesse di poterle contrastare fosse stupido; pensò anche che la stupidità che caratterizzava coloro che provavano a scordarle costruendosi una famiglia e quella di chi credeva di poterne nascondere il fumo confondendolo con quello delle stagnole fossero grossomodo equiparabili, pensò un’ultima volta alle foglie, e poi inserì le chiavi nella toppa.
La casa di Jean Roux era sostanzialmente vuota.
La porta d’ingresso apriva un varco su un breve corridoio tappezzato di vecchi quadri accostati tra loro senza un'apparente coerenza stilistica, quasi a suggerire ad un potenziale spettatore di indugiare prima di addentrarsi all’interno dell’appartamento. La galleria conduceva ad un soggiorno spoglio, privo anche del più sottile accenno di arredamento; all’interno della stanza troneggiava un pianoforte a coda, vecchio di almeno quindici anni, sul pavimento una miriade di spartiti a tappezzare ogni restante centimetro di suolo.
Negli ultimi tempi era diventato naturale non trovare più un posto dove riporli; a dire la verità, negli ultimi tempi erano diventate naturali molte cose: le pile di fogli accatastate, la disinvoltura dello Scotch nello sfuggire alla presa del vetro, la freddezza dei tramonti e il rumore delle strade a confondere i ricordi...
“Non lo trovi strano?” Jean spostò di colpo lo sguardo dalla distesa di pentagrammi;
“Intendo. che io sia destinata ad aspettare” nella sua mente echeggiavano parole un tempo incorniciate da una bocca che aveva conosciuto; credette di rivedere il mare e le rondini, poi scorse i profili delle fabbriche in lontananza e assaporó il bruciore del sale, arrivó il buio, e poi di nuovo la voce.
“.Ad aspettare una gioia così grande da spezzarmi il cuore.” un brivido fugace attraversó le membra di Jean; la sua mente non fu abbastanza reattiva, e, senza poter prendere coscienza del dolore, lasciò le mani in balia dell’intangibile sofferenza. Non piansero, come non piange chi da tempo annega nella noia, ma non furono in grado di resistere al bianco della tastiera.
Come fiati ormai perduti tra le più candide stoffe, troppo sottili per intrappolarne l’ardore, i disegni tracciati dai polpastrelli di Jean sopra la levigata superficie dei tasti parevano dissolversi al sopraggiungere di ogni nuova nota, dipingendo un quadro tanto trasparente da plasmarsi a contatto con la vacuità dei ricordi più lontani.
D’un tratto sembrò acquisire vividezza l’immagine delle onde: esse cominciarono a dipingersi d’azzurro lentamente, quasi ad approcciarsi con imperturbabile calma alla vita di cui erano appena entrate in possesso. Jean capì di pensare, scostò lo sguardo dall’immensa distesa d’acqua e si appropriò senza esitazione dell’idillico scenario, con l’amara consapevolezza di conoscerne ogni dettaglio, in quanto esso non era altro che l’estensione di ogni sfaccettatura del suo io, la cima e il fondo di un relitto che per anni aveva tentato di scomporre e abbandonare sul nastro di una catena di montaggio.
Conosceva perfettamente quel luogo, come conosceva la ragione per la quale la sua pelle si trovava nuovamente a contatto con la sabbia bollente e le sue mani, ora perse tra le piangenti note delle melodie da lui suonate, sembravano tornare ad appartenere alla donna seduta al suo fianco.
“Io ti amo Jean.”
La flebile voce pareva accompagnare come un debole canto lo scorrere delle dita sulla tastiera.
“...E voglio che tu rimanga con me. Quelle strade ti mangeranno. Tu, noi, non siamo fatti per marcire in città.”
Jean sollevò lentamente gli occhi da terra e lasciò che essi si posassero naturalmente sul delicato profilo della donna. Due ciocche di capelli le contornavano il volto pallido, troppo giovane per poter essere già stato vittima del susseguirsi degli anni ma incupito dalla vacuità dello sguardo, perso ad inseguire i movimenti delle rondini e a tracciare con gli occhi mappe contorte e sentieri di vento, con l’unico scopo di trovare una via, un modo per non tornare mai a respirare il fumo delle ciminiere.
“Harriet, sai che non posso restare”
Le parole scivolarono fuori dalla bocca di Jean senza che ci fosse modo di porre un freno al loro scorrere.
“Non ho niente qui; non posso permettermi di rifiutare un posto di lavoro assicurato nella speranza che la nostra vita assuma improvvisamente le sembianze di una commedia romantica.
Se mi ami davvero, te lo chiedo in ginocchio, lasciami andare.
È scaduto il nostro tempo Harriet, inseguirci all’impazzata non danneggerà niente e nessuno al di fuori di noi; la nostra ora non tornerà.”
La brezza marina addolciva il diffondersi delle frasi pronunciate da Jean nell’aria tiepida, prossima a divenire teatro dell’avvento di una nuova e imperturbabile notte. Il rosso che tingeva la bocca di Harriet parve sbiadire al sopraggiungere di una più intensa folata di vento che, come a spogliare del suo manto variopinto un tenero bocciolo di rosa, volle portare con sé una pennellata di viva vernice, per delineare tra gli infiniti spazi, la strada che Jean avrebbe cercato per sempre; quella che gli avrebbe permesso di ritornare, per un solo istante, a percepire il sapore di quelle labbra.
La bocca si mosse di nuovo, ma apparve per la prima volta priva della bellezza che il tempo trascorso tra i baci e i sussurri aveva ormai consumato.
“Se tu ora te ne vai” sussurrò la donna “io giuro che non ti perdonerò mai.”
Il tremolio che accompagnò la flebile voce tradì la freddezza delle parole appena pronunciate; non si arresero, ma non poterono fluire senza l’ombra di una spenta lacrima ad accompagnarle.
“Non potrai mai essere felice laggiù Jean.
Finirai per accontentarti di una routine scandita dal ticchettio delle lancette di un orologio e invecchierai di giorno in giorno seppellendo i tuoi rimpianti in non so quale angolo del tuo monolocale.
La gente marcisce in città e tu lo sai; quel posto comprime i sogni e li ridimensiona a suo piacimento. Non lo reggerai Jean.
Tu non sei come loro.”
Gli occhi dei due amanti si tuffarono gli uni negli altri per quella che entrambi seppero essere l’ultima volta. Per un eterno attimo, l’accavallarsi incessante dei ricordi interruppe lo scorrere del tempo e il pensiero della vita che avevano condiviso si stanziò nel più recondito angolo delle loro menti, pervaso da quella tenerezza che ben conosce chi non distingue più la persona che ha davanti a sè, e non può non tentare di ritrovarla nelle memorie dei giorni ormai trascorsi.
Si dissero addio in silenzio, senza tentare invano di colmare il proprio vuoto consolandosi con il dolore che captavano nei movimenti di chi l’aveva causato; Jean vide appassire il ricordo, ora sommerso dalla distesa di note che era prima stata fonte della sua stessa vita.
Le sue mani inseguivano melodie sempre più leggere, incapaci di tratteggiare le linee di un volto ormai perduto, e chiedevano un ultimo sforzo alla mente; chiedevano di poter ritrarre per l’ultima volta il profilo trasparente della donna che il fumo gli aveva strappato dalle braccia.
Le dita di Jean si abbandonarono al volere dei tasti, come a supplicare le corde del pianoforte di raccontare in eterno al cielo e agli astri di quell’amore che il vento aveva conosciuto e portato con sé per i contorti sentieri immaginati da Harriet; come a fantasticare di poter dipingere per sempre la luce del suo sguardo tra le costellazioni più straordinarie.
Il verde degli occhi della donna parve d’un tratto iniziare a tingere le pareti della stanza e l’immagine delle sue pupille ritratte dinanzi alla luce del sole iniziò tremolante a prendere forma. I caldi raggi sfiorarono con delicatezza la lucida superficie dell’iride, provocando uno scintillio tale da oscurare persino il bagliore del sole più luminoso.
Il luccichio parve sfuggire alla stretta dello sguardo per inseguire i movimenti degli immensi stormi di rondini danzanti nel cielo donando, cullato dal loro moto, la propria essenza alle cerulee vallate celesti; l’armonioso risuonare delle note accompagnava il trionfo di colori e la fusione di infiniti spazi e pianeti in quell’unico, eterno pegno d’amore, consegnato ad una platea di astri come il più grande spettacolo che le stelle avrebbero mai avuto occasione di ammirare. D’un tratto la luce si affievolì e la melodia sembrò farsi più leggera; il cielo si colorò di scarlatto e il panorama terrestre tornò l’unico squarcio d'universo a figurarsi dinanzi agli occhi di Jean; inerme, l’uomo credette di trovarsi di fronte al fallimento della sua impresa, credette di aver perduto tra le miriadi di galassie l’unico frammento di universo in grado di salvarlo dalla perpetua penombra della città.
Quando tutte le speranze sembrarono svanire ed i polpastrelli di Jean si abbandonarono lentamente ad un'ultima, sofferta danza, il sorgere del sole dietro ai profili diroccati delle fabbriche illuminó un angolo del suo volto ormai consumato dalla nottata appena trascorsa.
Un bagliore luminoso squarciò il buio della notte e lasciò spazio ad un’alba tanto calda da abbracciare ogni spigolo della dolente città, liberata per la prima volta dalla scura distesa di vapore che ne oscurava da anni gli impercettibili dettagli; Jean socchiuse gli occhi, abbandonandosi tra le braccia materne di Harriet, che sotto forma di amorevoli raggi, portarono per la prima volta alla luce le profonde rughe di colui che per anni aveva tentato di reincontrarle nel vigore di quell’abbraccio.
Socchiuse gli occhi e riconobbe finalmente tra gli albori del mattino l’eterno ritratto della donna perduta tra i sospiri del vento, ora al riparo dal volto straziato dell’infernale coltre di fumo; si abbandonò per quella che sembrò essere la prima volta nel verde del suo dolce sguardo e percepì il dolore che per anni aveva consumato la sua membra attenuarsi lentamente.
Non riuscì mai a spiegare la natura dell’emozione che lo pervase, ma in quel preciso istante Jean Roux seppe con certezza di aver ricominciato a vivere.
Gaia Crippa
Liceo E. Majorana – Rho
Il contrasto fra infanzia ed età adulta, piacere e dovere, vita estetica ed etica èun’esperienza trasversale e talvolta drammatica. Troppo spesso si dà perscontato che alla maturità debbano corrispondere aridità e rassegnazione. Senzacadere nel facile errore di perdersi in un’enfatizzazione puerile dell’estremoopposto, questo racconto traccia con delicatezza, maturità e romanticismo rarile tensioni dialettiche di un quadro umano complesso. Chi suona sa che ilcontrollo sullo strumento crea un ponte fra la propria anima e la melodia stessache la vivifica. Nel racconto, il conseguente circolo virtuoso apre un varco diprofondità crescente verso il ricordo di un amore perduto, che si erge acontraltare del grigiore presente con un’incisività ben diluita, quasi a suggerirela duplice natura del fumo come simbolo di bruttura e vagheggiamentonostalgico. La prosa è di altissimo livello in relazione alla giovane etàdell’autrice: forse un po’ carica a tratti, risulta comunque matura erelativamente misurata, equilibrio non facile data la densità di passaggi poetici.Nel complesso, una vittoria meritata per un racconto che eccelle su tutti i fronti.
Mattia Pedota
Nel cielo notturno i sentieri parevano incrociarsi tutti in un unico punto, forse incollocabili nel tempo e nello spazio. Si sentiva come un brusio di sottofondo, come di una folla: rumori di passi borbottanti, amalgamati avanzavano verso quell’unico luogo impercettibile ai sensi. Le strade non erano mai distinte, ma saldamente intrecciate, con alcune, e solo attraversate, da altre. Tanta era la complessità di quella tessitura da non riuscire a distinguere precisamente un’esistenza dall’altra. Il mio respiro rimaneva sospeso: il perché del nostro vivere mi brillava sorridente.
“E tu dov’eri?”
Il fiume ai miei piedi scorreva impetuoso, trasportando ogni rumore con sé. Si agitava su se stesso senza riposo, rumoreggiando. Era di una bellezza inquietante il continuo caos e lo spumeggiare del bianco appariva come una purificazione, un’espiazione, chissà da quale peccato. Potevo sentire il gelido dell’acqua graffiare la mia pelle, il petto denso e pesante e il frastuono continuo non fuori, ma dentro la mia mente. Immaginavo la pace del fondale. Nonostante la violenza era quasi impercettibile la figura che vi annegava dentro. Le mani picchiavano l’aria per chiedere aiuto, l’ansimare affannoso non si udiva, ma il volto sembrava urlare. La massa informe sballottata, costretta a procedere per quella via, stava disgregandosi. Poi con occhi rossi e gonfi si voltò a guardarmi con odio e ribrezzo. Tante cose mi disse quello sguardo: io ero lì, a guardarmi fissa negli occhi, ridendo freddamente e abbandonandomi al flusso.
“Da quando?”
In quelle sue piccole mani poteva abbandonarsi tutto il mondo. La sua pelle sottile poteva assorbire lacrime disperate. La sua boccuccia tremava ad una sensazione buona e ridonava freschezza al mio spirito. La creaturina respirava tra le mie braccia, vibrante di vita. Così fragile emanava un’energia ingombrante che pareva risucchiare la stanza, la casa, la natura e l’universo stesso in quel minuscolo punto di serenità. Ballavamo, raccolti, in quella stanza, le cui pareti si sgretolavano e il cui strato di pittura fioccava come neve. Mutava col passare del tempo, eppure sognavo potesse rimanere eternamente uguale. Nelle serate calde accarezzavo la sua nuca, sotto lievi spruzzate di stelle, ormai doveva poggiarsi sulle mie gambe. Il mio amore nei suoi confronti era carico di interrogativi, ma non si poteva fare a meno di averne cura, non era possibile fermarsi per trovare una risposta. Vivevo: le prime paroline, la sua espressione mistica quando dormiva, la luce dei suoi occhi traboccanti di curiosità, il suo accartocciarsi in me nei momenti di paura. Mi domandavo quando sarebbe arrivato il tempo della nostra separazione: troppo poco tempo da quando nacque e già allora traspariva la differenza che ci distanziava. Chiuse la porta e se ne andò.
“Perché?”
È stato come un viaggio durato più di una vita. Ogni immagine era come incarnarsi in altre pelli. Procedevo chiedendomi il senso di queste visioni: sono forse l’infinità di anime che si intersecano in me? Sono i vissuti di altri che hanno camminato su questa terra? Sono le possibili vite che non ho ancora mai vissuto? Racconto a te queste vie, davanti a questo fuoco, perché sono parole incomunicabili ad altri. Tremo. Sono frasi incomprensibili e per questo laceranti. E tu, che sei un essere di mezzo, tra me ed il mondo, mi uccidi trafiggendomi con questi tuoi occhi, perché ancor meno di me puoi comprendermi.
“Andiamo?”
Andiamo verso le infinite porte del destino. Apro la porta. C’è un letto, fondale di morte. La finestra aperta fa fluire il vento marino. Questa stanza non è altro che l’angolo più intimo della sua anima, piena. Sento il bisogno di toccare, di respirare gli utensili, i libri, il legno di quel luogo. Mi avvicino alla finestra. Il sole cala e si inclina per indicarmi quello che per me non è che una tomba: profuma della sua presenza e sfioro le lenzuola. E mi manca, mi sento abbandonata, dove troverò rifugio ora?
“Non piangere.”
Le mie lacrime scorrono picchiettano il suolo. Sotto il letto c’è un varco, una galleria. Mi inabisso. Striscio verso il ventre di questo luogo. Scorro le dita sulle pareti umide, per non cadere. Una musica gracchia chissà dove, tra il gocciolare viscido, sempre più intensamente.
“E poi?”
Si apre a me il vuoto: un’oscurità talmente densa da esercitare una forza d’attrazione irresistibile. La musica trasporta lì, un leggero vento vorticoso ulula tra i capelli. Mi volto ed il passato si apre a me luminoso e chiaro, estendendosi sempre più ampiamente. Sono all’origine. Sento la mia esistenza così arida, deserto di spine, eppure pesante, soffocante. Vorrei poter rileggere il mio vissuto e scovarvi il suo oscuro senso, ma il sentiero si apre a me.
Mi inabisso?
Alessia Buonaugurio
Liceo Falcone e Borsellino - Arese
Racconto breve, non lineare, a metà fra l’onirico e l’introspettivo. La protagonista pare perdersi in un turbinio di luoghi e interazioni cariche di significato, senza mai chiarirne la natura, ma anzi aprendo lo spettro delle possibilità ad una moltitudine di metafore esistenziali. Anche se nel complesso risulta difficile identificare un filo conduttore, ogni singola parola è evidentemente scelta con cura, e molte delle immagini evocate sono fra le più belle di questa edizione. Questo racconto è pura esigenza espressiva: l’autrice non si cura di costruire, ma solo di trasferire su carta uno slancio creativo nella sua immediatezza, dando prova di grande sensibilità e di un talento non comune.
Mattia Pedota
Era una buia notte piovosa. Il cielo, già spento e privo di luce solare, era stracolmo di vaste nuvole grigie. A terra cadevano leggiadre e raffinate, piccole gocce d’acqua, colpendo i visi seri e smorzati di quelle persone che camminavano a passo svelto su quel porto. La nebbia era piuttosto fitta e da lontano, non si riusciva vedere molto: le uniche fonti di luce erano quelle poche stelle che ogni tanto comparivano tra le nuvole scure che popolavano il cielo. L’unica cosa che si riusciva a scorgere da leggermente più lontano era la nera sagoma della barca che stava approdando la terra ferma proprio quel momento; la stessa imbarcazione da cui scendevano uomini vestiti in maniera molto elegante, probabilmente dei nobili, seguiti da una decina o una ventina di altre persone: queste non erano vestiti con preziose tuniche rinomate decorate da ornamenti dorati, ma indossavano invece toghe stracciate e malridotte, resti di indumenti strappati e ingialliti. Degli schiavi.
L’acqua piovana faceva lentamente scendere lo sporco sui loro volti timorosi ma allo stesso tempo indifferenti alla crudele sorte che li attende, sporcando ulteriormente le loro vesti. Tra tutti quei visi fiacchi, un ragazzo spiccava particolarmente: il naturale rossore delle sue guance che aumentava a causa della fredda brezza che lo colpiva, le sue ciglia scure che affilavano il morto sguardo dei suoi occhi verdi quanto smeraldi, i capelli color fuoco che gli cadevano delicatamente sul collo e che nel buio splendevano come se fossero una delle poche stelle ancora non coperte dalle nuvole cariche d’acqua, i muscoli del suo petto, braccia e gambe che nonostante non fossero totalmente scolpiti erano comunque ben visibili; tutto ciò non faceva altro che risaltare la sua bellezza. Era bello quanto un angelo caduto dal cielo, forse anche di più. Nonostante a fitta nebbia che rendeva difficoltosa l'identificazione, i tratti somatici del suo delicato viso si distinguevano facilmente da quelli di chiunque altro, proprio come i suoi capelli scompigliati dal viaggio turbolento. Le gambe di tutte quelle persone iniziarono a muoversi, il rumore dei piedi contro il porticato di legno spezzava l’affilato silenzio che li avvolgeva; iniziarono a camminare nella spessa foschia che pian piano si espandeva sempre di più e dopo non molto, scomparvero.
Era il mattino seguente, tutti gli schiavi erano stati venduti a ricche famiglie per una cospicua cifra di denaro. Nell’esatto momento in cui si risvegliavano frastornati, gli uomini erano costretti a lavorare in terre calcaree: veniva fornito un sacco di paglia ed una piccozza arrugginita e se la sera non tornavano con quel vecchio sacco rovinato riempito completamente da minerali preziosi e rocce pregiate, venivano puniti severamente. Le donne invece passavano la giornata a badare alla casa e, molto spesso, qualcuna di loro veniva chiamata con estrema urgenza da uno di quei sudici nobili: nessuno li dentro sapeva per
certo cosa succedesse tra loro ma probabilmente venivano assalite e picchiate pesantemente. In quell’orrendo ambiente c’era il costante timore che queste ipotetiche violenze aumentassero se il lavoro svolto da queste poverine non era perfetto, perciò chiunque dava il massimo di sé per soddisfare a pieno le richieste che gli venivano fatte.
L’abbagliante sole batteva forte sopra le teste degli uomini che, affamati e assetati, lavoravano in quelle terre aride, in cerca del materiale più prezioso. Tutti fatta eccezione per uno: il ragazzo dai capelli di fuoco. Lui stava seduto in una piccola rientranza ombreggiata delle dure mura di pietra che lo circondavano; sul suo volto era dipinta un’espressione di stanchezza e timore. Aveva provato a lavorare per qualche momento ma la sensazione dei piedi nudi che si battevano per farlo rimanere in piedi su quel terreno secco gli provocava immenso dolore e disagio. Digrignava i denti con determinazione e si sforzava a lavorare ma l’indolenzimento dei suoi muscoli quando doveva estrarre la pietra con quel gigantesco piccone lo fermava stremato: l’utensile di cui era stato fornito era decisamente troppo pesante per lui. Era stato creato per uomini dal fisico scultoreo e massiccio e lui, per quanto si sforzasse, era ancora un ragazzo relativamente magro. Aveva paura. Non voleva stare lì. Il sol pensiero di dover portare a casa un sacco intero di minerali grezzi lo sfiancava. Sapeva che se fosse stato uno chiavo obbediente avrebbe sarebbe stato castigato, o peggio, giustiziato; aveva iniziato a diventare paranoico ed il timore che gli potesse succedere qualcosa di fatale cresceva e cresceva sempre di più.
Mentre si stava immaginando il peggio, la sua attenzione venne catturata da una piccolo dettaglio del paesaggio; accanto a lui sorgeva quello che sembrava un piccolo ma incantevole boschetto: la calda luce solare passava in mezzo alle foglie degli alberi, il cui particolare colore verde ricordava quello degli occhi del ragazzo. Il terreno non era morto come quello su cui sedeva comodamente, ma bensì umido e quasi soffice, decorato da numerosi fiori colorati e evidentemente profumati. Non lo aveva mai notato fino a quel momento: stava avendo allucinazioni?
L’affascinante giovane si alzò e si guardò attorno cautamente, come per controllare che nessuno lo potesse vedere: nessuno stava lavorando nelle sue vicinanze. nascose la saccoccia e il piccone di metallo dietro a delle rocce, in modo che nessuno potesse notarli, e si mise a camminare verso quella che gli sembrava un miraggio; non appena sentì la sensazione dell’erba umida sotto ai piedi doloranti, il fanciullo sorrise dolcemente e iniziò ad esplorare quello che pareva un bosco incantato. Il suono dell’acqua dei ruscelli che correva leggera, il silenzio del calmo vento che gli arruffava appena i capelli, i versi felici degli animali che vivevano lì dentro con gaiezza e senza preoccupazioni e i piacevoli fiori vividi che gli si strusciavano sulle caviglie svestite lo condussero a stendersi sull’erba soffice davanti a quella che da lontano sembrava una vecchia fontana bianca in marmo: dell’edera si arrampicava sulla sua curva superficie e veniva bagnata dall’acqua che scorreva cristallina. Sembrava quasi magica. Il ragazzo chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare i variegati suoni della natura circostante. Era come se si fosse liberato da tutti i problemi e le paranoie che lo turbavano qualche decina di minuti prima; tutto sembrava una cosa passata, un qualcosa da dimenticare completamente, un qualcosa che era stato rimpiazzato improvvisamente da felicità e serenità, un felicità e una serenità che non erano destinati a durare molto più a lungo. All’improvviso, tra il suono soave dei fili d’erba che venivano leggermente spostati da quel poco vento che c’era, si aggiunse un lamento. Una voce abbastanza profonda che sembrava piuttosto scocciata accompagnata da un rumore di passi pesanti. Gli occhi del giovane schiavo si spalancarono in un attimo, iniziando a sudare freddo; si alzò di colpo, spaventato da quella voce, o meglio, da dove quella voce proveniva, e si mise a correre verso il suo posto di lavoro, o almeno questo è quello che sperava di fare: Inciampò in una ferma radice di un albero e cadde a terra, facendo colpire la testa contro una roccia, il dolore pungente come quello di una lama affilata che gli colpiva con forza la testa e un fiotto di sangue rosso che li scorreva giù per la tempia. L’unica cosa che sentiva era un fischio che gli offuscava la mente e dopo poco, buio.
Riprese coscienza dopo un paio di ore, i suoni iniziarono a divenire più chiari e, mentre provava ad aprire gli occhi per capire cosa fosse accaduto, sentì due calde mani toccargli la guancia destra e la spalla sinistra; sembravano un po’ più grandi delle sue ma la cosa non sembrava turbarlo. Oltre a quelle mani estranee sentiva come un panno bagnato sopra la sua tempia e il dolore, che era arrivato con estrema velocità, era diminuito esponenzialmente: era stato medicato dalla persona a cui appartenevano quei lamenti. Aprì lentamente gli occhi verde smeraldo e si ritrovò di fronte un ragazzo: Aveva una mascella affilata, indossava quella che sembrava una robusta armatura reale composta da vari metalli resistenti e nel complesso sembrava uno o due anni più grande di lui. Notò che sulle sue guance posava un velo di rossore che quasi non copriva gli occhi scuri quasi quanto i capelli lievemente spettinati, sulla sua faccia era dipinta un’espressione imbarazzata ma allo stesso tempo sollevata e il suo corpo era molto teso. Aveva accanto una piccola cassetta in legno aperta: dentro si potevano scorgere vari medicinali e disinfettanti.
Mano a mano che le parole diventavano sempre più comprensibili, il garzone dai capelli di fuoco iniziò ad interagire con il suo salvatore: il ragazzo si chiamava Philo ed era il principe del regno in cui si trovavano. Si trovava lì perché aveva notato il bosco per la prima volta in vita sua e, incuriosito dall’alone di mistero che aveva, decise di addentrarcisi. Durante il corto tragitto aveva però perso delle gemme che gli erano state regalate e perciò si lamentava. Quando Philo chiese chi fosse lui, lo schiavo non rispose. Non aveva un nome da dargli, non gli era mai stato dato un nome, e anche se ne avesse uno, lui non lo sapeva. Non voleva dire di essere uno schiavo, avrebbe potuto allontanarsi. Non voleva dirgli cosa ci faceva lì, avrebbe potuto riferirlo al suo crudele padrone. Ma qualcosa era strano in lui: non sembrava una cattiva persona. Il modo in cui gli aveva parlato fino a quel momento, il fatto che lo avesse medicato nonostante fosse solo un poverino vestito di stracci strappati ed ingialliti e che era chiaramente lì per fuggire da qualcosa o da qualcuno, il rossore che mano a mano che parlavano occupava sempre di più il suo bellissimo viso. non voleva fargli del male. Prese coraggio e gli raccontò tutto, facendo capire a Philo che aveva bisogno di aiuto. Alla fine di quella lunga e insolita giornata, Il giovane dai capelli dello stesso colore delle fiamme che ardevano nel camino, tornò a casa assieme a tutti gli altri uomini con un sacco pieno di rocce pregiate ed un nuovo nome: Victor.
I due fanciulli iniziarono a vedersi ogni giorno. Si vedevano tutte le mattine davanti a quella vecchia ma stupenda fontana bianca e parlavano per tutto il tempo che volevano, dopodichè si dirigevano verso quei terreni calcarei dove tutti gli uomini minavano e Philo aiutava Victor con il lavoro. Più si vedevano, più il loro legame diventava forte, più le loro guance diventavano rosse, più si faceva presente nei loro stomaci una sensazione strana, una sensazione simile a quella di farfalle che volavano all'impazzata. Passarono giorni, forse mesi, forse anni.
Era un fresco pomeriggio di primavera, i due erano sdraiati sotto un maestoso albero di ciliegio dai numerosi fiori. Stavano dormicchiando l’uno sopra l’altro. Erano entrambi vestiti allo stesso modo: entrambi indossavano una toga bianca, gli unici elementi che li differenziavano erano la qualità e lo stato dei loro capi. Tra i loro capelli passava un fine filo di vento, lo stesso vento che spostava debolmente i petali rosa che cadevano dall’alto. Philo improvvisamente aprì bocca e fece liberare tutte quelle farfalle che per tutto quel tempo erano state rinchiuse nel suo stomaco, tutte quelle farfalle che gli avevano fatto capire già da tempo come mai arrossiva ogni volta che faceva contatto visivo con i suoi affilati occhi verdi, tutte quelle farfalle che gli avevano fatto comprendere fin dal primo momento che aveva intravisto il suo dolce viso che erano destinati assieme. Da quel giorno, i due non si vedevano più solo come amici, ma come qualcosa di infinitamente più importante. Erano felici, ma che dico, felicissimi. Sceglievano di vivere quasi ogni momento della loro giornata insieme, e anche quando non erano l’uno accanto all’altro, coccolandosi, si pensavano costantemente. Suonavano strumenti musicali assieme. Ridevano di gusto assieme. Vivevano la vita assieme. Amavano ogni giorno che passava e speravano con tutto il loro cuore che a tutto questo non ci fosse mai una fine, nonostante le situazioni estremamente diverse ed ogni tanto difficoltose in cui vivevano, nonostante i problemi e le fatiche. Ma purtroppo, come tutte le cose belle, questa felice storia d’amore, una fine la trova eccome.
La famiglia reale era estremamente devota al dio della musica Apollo che, a vedere una relazione tanto disgustosa e senza senso tra un imponente reale ed uno sporco ed insulso schiavo, gli ribollì il sangue nelle vene. In preda alla rabbia, decise di maledire quell’inutile schiavo che aveva osato rovinare l’onore di un rispettabile principe a lui devoto affinché diventasse un elegante arbusto ornato da leggiadre foglie del suo stesso colore di capelli una volta il suo avvenente corpo venisse baciato dai primi raggi del sole.
Era il giorno successivo e Victor venne svegliato di prima mattina come al solito. Prese una delle tante saccocce di paglia e due delle piccozze che posavano in un angolo della vecchia cantina in cui dormiva assieme a tutti gli altri schiavi uomini: nonostante non fosse molto forte e muscoloso, quello di trasportare due di quei picconi alla volta era un sacrificio che era disposto a fare per il suo amato. Uscì. Fortunatamente per lui, il sole non era ancora sorto ed ebbe tempo di dirigersi verso la fontana di quel bosco incantato. L’atmosfera che li dentro si trovava quando i robusti rami degli alberi muschiosi non venivano colpiti dai primi e morbidi raggi di luce della mattina, rendeva questo posto ancora più magico e speciale. Il fanciullo si lasciò cadere sull’erba bagnata probabilmente da qualche pioggia notturna, gettando sacco e utensili. Chiuse gli occhi, ancora un po’ stanco. La sensazione dei singoli fili d’erba che toccavano il suo corpo mezzo nudo gli fecero alleggerire la testa. Non gli ci volle molto per cadere nelle grinfie del sonno ancora una volta, ma questa volta, non si sarebbe più risvegliato. Il sole infatti non attese che Victor aprisse gli occhi per sorgere; La sua calda luce colpì i tronchi degli alberi, i cespugli e l’erba ed iniziò lentamente a posarsi sulla liscia pella dell’addormentato. Il corpo del ragazzo iniziò a diventare sempre più tenso e a contrarsi. La sua pelle divenne scura quanto la corteccia di un albero, le sue gambe si irrigidirono e si impiantarono nell’umido terreno sottostante, dalla sua schiena e dalle sue braccia cominciarono a ramificarsi. Foglie rosse quanto i suoi soffici capelli iniziarono a spuntare da quelli che oramai erano identificabili come rami e pian, piano, si trasformò in un alto ed imponente quercia dalle larghe e dentellate foglie rosse.
Il sole saliva sempre di più e la flora del bosco continuava ad illuminarsi. Le acute voci degli uccellini iniziavano a distinguersi dal suono calmo di quelle foglie che ogni tanto cadevano a terra, splendendo come scintille di fuoco, illuminate dal sole. Il tempo passava lento ed un rumore familiare iniziava a sentirsi.
Era il rumore di passi, il rumore pesante di passi su quel terreno umido ed erboso che distingueva quel bosco dal pavimento roccioso ed arido dell’ex- posto di lavoro di Victor. Il ritmo riconoscibile dei piedi che battevano contro la terra fertile: Philo.
I suoi occhi si spalancarono stupiti dal vedere quel particolare arbusto spuntato dal nulla. Lo studiò da cima a fondo per qualche manciata di secondi, inquadrando anche la più minima particolarità. Il suo innocente sguardo si spostò sulle foglie dentellate, quelle foglie che avevano lo stesso colore dei capelli dell’amato. Un’amara lacrima gli rigò il volto. Poi un’altra, ed un’altra ancora, fino a che iniziò a piangere. Le gocce che cadevano dai suoi occhi tristi e lucidi bagnavano il suo viso delicato ma allo stesso tempo mascolino, facendogli arrossire le guance un’ultima volta. Questa volta però per tutte le motivazioni più sbagliate. Lo aveva riconosciuto, anche se era diventato un albero, lo avrebbe riconosciuto anche in una stanza piena di sue copie, lo avrebbe riconosciuto anche se fosse diventato un qualsiasi animale.
Il ragazzo rimase a piangere ai piedi dell’albero per tutta la giornata: ricordava i momenti che avevano passato insieme, belli e brutti che siano. Ricordava del loro incontro. Ricordava della dichiarazione. Ricordava di quanto lo amava.
Il tempo passò velocemente. Ora Philo era invecchiato. Era sposato con una bellissima donna. Aveva dei bellissimi figli. Era diventato un fantastico re. Non era felice. Victor gli mancava ancora. Ma un giorno poté raggiungerlo. Il giorno della sua morte si fece seppellire ai piedi di quell’albero, creando un nuovo cimitero reale.
Edoardo Lanzi
Liceo L. Fontana - Arese
Questo racconto, arrivato sulla mia scrivania per la motivazione, ha pregi e difetti che cercherò di elencare con serenità e sincerità, a cominciare dai pregi. Il pregio principale è che il testo affronta in modo pudico l’amore tra giovani dello stesso sesso. Si tratta di due giovani provenienti da posizioni sociali opposte: l’uno è schiavo, l’altro è nobile: è addirittura il figlio del re. Esalta la pulizia del loro amore, mantenendosi nel suo svolgimento ad un livello onirico, estatico, visionario. Si direbbe che il rapporto ha la sua maggior forza nell’amicizia e che i sensi fuggono ad ogni prurito, tanto da non trovare un periodo che parli di essi. Tutto questo, unito ad un ricordo di mitologia greca, dà allo svolgimento una patina di magia. Le dolenti note sono i tanti, i troppi errori che lo sfregiano e lo rendono ostico da leggere. Ricordo che per scrivere necessita conoscere bene la lingua. E’ fondamentale. I Promessi Sposi hanno avuto la necessità di tre versioni e tanti scrittori si sono cimentati solo quando si sono sentiti padroni dell’idioma. Per quanto mi riguarda, consiglio il ragazzo di donare parte del suo tempo libero allo studio della grammatica e dell’analisi logica prima di presentare un altro racconto al Calendimaggio. Il tempo gioca a suo favore. Ne tragga profitto per sé e per i suoi futuri lettori.
Adriano Molteni
Chi lo avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovata in una situazione così complicata, a prendere una decisione che avrebbe potuto determinare la fine di tutto.<br/>Solo pochi mesi prima nessuno avrebbe mai pensato possibile una cosa del genere. Viveva tranquillamente nella sua piccola cittadina, così piccola e ignorata tanto che, appena la nominava ai suoi compagni di classe, loro sgranavano gli occhi e assumevano un'espressione di incertezza e stupore come se si sentissero presi in giro o come se la loro amica stesse mentendo, visto che la loro scuola non era poi tanto lontana da quel posto sperduto. Nonostante ciò Centerville non era poi così male, infatti là vivevano solamente famiglie benestanti le quali con il loro stipendio riuscivano a permettersi una grande villa con il giardino, una piscina e persino una macchina moderna. Affacciava sul mare perciò non c’era cittadino che non si fosse mai recato in estate a vedere le sue bianche scogliere e a sentire il rumore delle onde infrangersi su quelle rocce che parevano quasi un dono divino. Tuttavia il luogo più famoso di quel paesino era il suo splendido viale alberato: percorrendolo avevi la possibilità di immergerti nella natura circondato com’era da maestose e rigogliose querce con foglie sempre verdi, ad eccezione dell’autunno quando esse iniziavano a ingiallire e invecchiare pronte ad abbandonare per sempre il loro ramo e cadere sul cemento umidiccio al fine di lasciare posto alla neve che avrebbe annunciato l’arrivo dell’inverno. Proprio al termine di questa via abitava.<br/>Alice, una ragazzina di quindici anni, tranquilla, semplice, con ottimi voti a scuola, ottimi amici e una splendida madre pronta a proteggerla in ogni occasione. Insomma non poteva chiedere di meglio! Molte volte però la vita ti sbatte la verità in faccia e allora non hai più scampo: tutti i progetti futuri e ciò che avevi costruito crollano, lasciandoti come unica possibilità la scelta di compiere azioni secondo ciò che ritieni più corretto senza poterti confidare con nessuno, perché nessuno mai potrebbe aiutarti. Evidentemente la sua iniziale serenità era solo come la quiete prima della tempesta, la tempesta che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.<br/>Il fatidico giorno fu il 22 Ottobre del 1998 proprio in una giornata d’autunno, la sua stagione preferita, la ragazza camminava per il lungo viale che l’avrebbe condotta al portone di casa. Il sole le illuminava l’incarnato come in una dolce carezza e faceva diventare i suoi occhi smeraldi luminosi, la sua bassa statura le permetteva di mimetizzarsi perfettamente tra le altre persone che come lei erano intente a raggiungere il loro caldo soggiorno il prima possibile. Indossava dei semplici jeans e una maglietta leggera forse un po’ troppo, dato che ben presto iniziò a sentire un brivido scenderle lungo la schiena, ma ciò non le <br/>importava più di tanto perché sapeva che a breve sarebbe arrivata. Assorta nei pensieri ascoltava le sue canzoni preferite nell’attesa che sua madre Anna, come faceva ormai tutti i pomeriggi, la chiamasse dal lavoro per chiederle come fosse andata la scuola e se avesse passato una bella giornata. Però quel pomeriggio ad ogni passo che faceva e più i minuti passavano più iniziava a insospettirsi per l’assenza di quella chiamata. Quella donna era una persona abitudinaria, che non saltava mai nessun impegno e mai si sarebbe sognata di non telefonare alla sua unica figlia. Perciò la testa di Alice si iniziò a riempire di paranoie e interrogativi che sicuramente non avrebbe colmato con l’arrivo a casa. Infatti vedendo la macchina di sua madre parcheggiata nel garage cominciò a preoccuparsi sempre di più, tanto da sbiancare completamente in faccia a causa del suo sesto senso che le continuava a far suonare in testa un’unica parola, ossia “PERICOLO”. Tuttavia cercò di scacciare via i pensieri negativi ragionando che quella poteva essere probabilmente solo una sorpresa. Questo le pareva alquanto strano poiché Anna odiava le sorprese, odiava tutto ciò che era ignoto e soprattutto non sopportava far spaventare le persone per poi saltare fuori all’improvviso da dietro uno stipite con una torta alla crema in mano e un sorriso smagliante.<br/>Nonostante tutto questo Alice cercò di autoconvincersi che andasse tutto bene e che non ci fosse nulla di strano.<br/>Entrando in casa però la verità le si palesò davanti: sua mamma era a terra in lacrime con un viso spaurito e affranto e le mani che le tramavano mentre cercavano di reggere...Sgranò gli occhi più volte nella speranza che quello fosse solo un brutto sogno, ma più i secondi trascorrevano più si rese conto che quella scena non era affatto frutto della sua immaginazione. Lo capì soprattutto quando anche la punta delle sue scarpe fu inumidita da quel sangue che continuava a sgorgare dalla testa del cadavere della sua vicina stesa di fianco ad Anna. A quel punto cosa avrebbe dovuto fare? Chiamare la polizia permettendo che loro portassero via sua madre per il resto della sua vita o aiutarla a nascondere il corpo diventando quindi una complice?<br/>Non l’aveva mai vista così, era evidentemente sotto shock, ma Alice non aveva dubbi: era stata la sua dolce e pacata mamma ad ucciderla.<br/>Già da molto tempo tra le due famiglie non scorreva buon sangue e ogni pretesto era buono per litigare: un bidone fuori posto, la musica troppo alta, un odore dannatamente forte. Tuttavia la goccia che fece traboccare il vaso fu che proprio quando la sera precedente la vicina Maria, una donna di venticinque anni, era tornata ubriaca dalla festa e aveva iniziato a lanciare bottiglie di vetro nei giardini del vicinato, questo episodio aveva probabilmente scosso talmente tanto Anna fino a temere per la sicurezza di sua figlia, perciò appena la giovane signora, il giorno seguente, si presentò alla loro porta di casa con l’intenzione di discutere per qualche altra sciocchezza, la madre colse subito l’occasione per scagliarle un candelabro in testa senza neanche darle la possibilità di aprire bocca.<br/>Alice osservò a lungo gli occhi in lacrime di sua madre, ma dietro a quella cascata non c’era un briciolo di rimpianto, una luce che facesse intendere che si fosse pentita, non c’era nulla, i suoi occhi erano vuoti e la ragazzina non voleva essere complice di una donna che per risolvere screzi uccide le persone vergogna. Così chiamò la polizia.<br/>Le autorità non ci misero molto a ricostruire la vicenda grazie alle testimonianze. Anna se la cavò con la solita frase: “Non volevo ucciderla, è entrata in casa mia, mi ha aggredito e mi sono dovuta difendere”, perciò non ci fu alcun processo e il caso fu chiuso nel giro di due giornate. La notizia non ci impiegò di più di un paio di ore per fare il giro di Centerville. Ai bambini fu vietato passare per quella strada, nonostante fosse uno dei luoghi più belli della citta, perché in fondo al bel viale ci abitava la pazza strega che aveva ucciso una loro amata compaesana.<br/>Così si diceva. In realtà a nessuno importava realmente della vittima, dato che non era già vista di buon occhio, ma ciò che desideravano era invece sparlare, borbottare, farfugliare tra di loro cattiverie che coinvolgessero il bersaglio di turno. Il quale sfortunatamente si era ritrovato di fronte a una situazione difficile nella quale aveva commesso uno sbaglio. A loro piaceva molto giudicare, conoscendo solo una parte della verità, senza pensare che quei giudizi potessero nuocere a qualcuno.<br/>Beh quel qualcuno non era sicuramente Anna che come se niente fosse riprese tranquillamente la sua vita ancora più fiera e spensierata. Lo stesso non si può dire per Alice che da quel giorno iniziò a chiudersi in se stessa, isolarsi, calare con i voti, perdere amicizie e non volerne più sapere di parlare con sua madre. La sua vita nel giro di una giornata era cambiata per sempre e lei aveva iniziato l’attraversata di un tunnel buio apparentemente senza fine, dove le conseguenze degli sbagli della mamma continuavano a ricaderle addosso senza che nessuno ci desse molta importanza, nella speranza che chissà un giorno la quindicenne avrebbe trovato da sola la via d’uscita.
Cassandra Maria Bollati
Liceo Classico C. Rebora - Rho
Il racconto è ambientato in America, in una piccola cittadina immaginaria, dove vivono famiglie benestanti in grandi ville con giardino e la piscina. Canterville ricorda alcuni film degli anni Novanta. La storia narra con passione di Alice, una ragazzina di quindici anni, in un giorno apparentemente come tanti, che però si dimostrerà essere quello della “svolta”. Come dice il titolo, Il giorno della svolta, è appunto il giorno in cui la protagonista viene improvvisamente messa di fronte alla difficile decisione di scegliere tra affetto familiare e giustizia. La scelta comporterà per lei conseguenze psicologiche che perdureranno nel tempo e cambiamenti nella sua modalità di vita, senza che nessuno dia importanza alla sua sofferenza.
Maria Grazia Cislaghi