Le emozioni che si vestono di colori, pensieri nascosti nei meandri dell’anima che affiorano a poco a poco. La parola ha un potere liberatorio. E, anche più della letteratura, è la poesia a permettere ai più giovani di esprimere i loro vissuti.
La pandemia ha molto provato gli studenti di ogni età. I testi riflettono il peso che ha avuto l’isolamento in chi si affaccia alla vita e avrebbe tutto il diritto di condividere ogni passaggio con i propri coetanei, senza limitazioni.
Offrire ai ragazzi un modo per dar voce alle loro sensazioni è un dono notevole e Calendimaggio lo ripete ancora una volta, la venticinquesima per la precisione, garantendo spazi di riflessione a una generazione che affronta un’epoca davvero complicata.
Il tema della guerra affiora nelle poesie. Non poteva non colpire i più sensibili, quelli che non avrebbero mai pensato di avere a che fare con bombe e missili nella nostra Europa. Si parla di “un boato assordante” che “scuote le ossa”, ma anche di una novella Guernica, del tutto inattesa e non messa nel conto del proprio vissuto, già provato dalle restrizioni legate al Covid-19.
A dare conforto ci sono due ancore fondamentali: le amicizie (“che nutrono l’anima”) e la famiglia, intesa come “la coperta più calda”, quella “unione che non mi farà mai sentire solo al mondo ovunque sarò”. Tra i racconti si trovano le definizioni di famiglia di alcuni giovanissimi: quel porto sicuro non è del tutto perduto in questa società così complessa, almeno stando a chi ritrova in quel nucleo sostegno, rispetto e assenza di giudizio.
Buio e luce, dunque. Fatiche e consolazioni. Se alcuni percepiscono persino l’amore come una droga, invitando a mettere se stessi al primo posto, almeno per non soffrire, altri trovano conforto negli affetti più cari. Mi colpiscono questi ragazzi capaci di essere attenti a temi molto presenti nelle cronache, a partire dalla violenza sulle donne, e che, alle prese con 4 drammi interiori, in quella fase della vita vissuti con emozioni moltiplicate in maniera esponenziale, si confrontano con solitudine, nostalgia e “mostri neri” che attanagliano l’anima.
Mi consola che esprimere quanto si prova dentro attraverso le parole possa dare consolazione. E apprezzo le diverse citazioni di autori famosi, da Foscolo a Leopardi, come il richiamo a personaggi che hanno lasciato il segno nella storia letteraria, da Prometeo ad Amleto. I ragazzi dimostrano di avere affrontato con serietà il percorso di studi, per attingervi qualcosa di buono e di utile per le loro vite. Una delle poesie lo dichiara apertamente ed è per me l’auspicio più grande: “Mi prometta che questo Aoristo mi renda donna, che Vespasiano m’affianchi ancora, che Enea non si fermi a Roma, che cinque anni non mi scialacquino, che sia un tutt’uno: la vita vissuta e quella appresa”.
Ecco, che la vita vissuta e quella appresa siano una cosa sola. E un augurio e ringraziamento a Calendimaggio con tutti i suoi volontari che lo rendono possibile da un quarto di secolo accompagnando i ragazzi alla scoperta della vita, con le sue luci e le sue ombre.
Andrea Orlandi
Sindaco di Rho
Non odo alcun suono
Ma ascolto una musica lieve
Non vedo alcun colore
Ma immagino sfumature.
Quando anche l'ultima
Luce si è spenta,
La prima stella
Brilla nell'oscurità,
Le mie palpebre faticano
E pesanti cadono
Ed io penso,
Io sogno.
Sogno il domani incerto,
Le aurore e i tramonti
Le risa di fanciulli
Che con lo sguardo carezzano un fiore.
Sogno immense catene di monti
Innevati dalla candida
E perpetua neve,
Che soavemente si adagia sulle vette.
Sogno l'infinito mare,
Porgo orecchi per udirne la voce
Limpida e pura
Placida, ma inquieta.
E vorticosamente, in questa infinità,
I miei pensieri
Si intersecano con i sentimenti
Liberi nella tortuosa onda interiore.
E nel fragoroso silenzio dell'anima
Accolgo sfuggenti le immagini
Dipinte dalla Notte
Per mia mente anelante
Sogni.
Cristina Albusceri
I.C. De Andrè - Media Bonecchi B. D’Este - Rho - Classe 3ª
Una poesia forse un po’ inconsueta nel mondo che ci circonda: il futuro dipinto come un sogno, una musica senza suoni, dei colori che si possono solo immaginare dalle sfumature. E mentre le palpebre si chiudono, il poeta si ritrova a pensare fanciulli che accarezzano un fiore, monti bianchi di neve, il mare e la sua voce al tempo stesso portatrice di serenità e di inquietudine.
Di fronte a queste immagini, “, i pensieri e i sentimenti” si fondono “vorticosamente” nel silenzio, che viene definito come “fragoroso” dell’anima.
La poesia rappresenta in modo davvero originale paura e desiderio di futuro, speranza e inquietudine della giovinezza, che la notte dipinge nell’anima. E che la lettura del testo riproduce.
Ombretta Degli Incerti
Mi dicono sbagliata,
non sono abbastanza?
Mi ridono alle spalle,
sono ridicola?
Sono diversa,
devo cambiare?
Sono ribelle,
devo lasciarmi domare?
Volevo solo vivere,
vivere e combattere,
piangere e ridere,
urlare e sussurrare.
Ora voglio correre,
correre e scappare,
non girarmi, non pensare
che qualcosa possa cambiare.
Non avere sentimenti
perché fanno solo male,
smetter di pensare
per riuscire a respirare.
Scappare o restare?
Restare per chi?
Scappare da cosa?
Per gli altri o per me?
Dagli altri o da me?
Non lo so, ho paura,
sono debole, insicura.
Non riesco a scappare,
e neanche a restare.
Posso solo nascondermi,
tra gli sguardi confondermi
Forte mostrarmi,
dentro spezzarmi.
Senza mai piangere o gridare,
esser perfetta, non sbagliare
e intanto sprofondare
e al fondo lasciarmi incatenare.
Perché vorrei solo scappare,
ma sono costretta a restare.
Chiara Casari
Scuola Media San Carlo - Rho - Classe 3ª
Questo testo si snoda al ritmo incalzante delle domande che la giovane poeta rivolge a se stessa, ma implicitamente anche a un generico interlocutore. Un “tu” che rappresenta l’alterità, il gruppo degli altri, dai quali ci sentiamo sempre in qualche modo giudicati. “Mi dicono sbagliata, […] devo cambiare?” si interroga infatti la giovanissima poeta.
L’interiorità appare come un giardino privato in cui si adombrano contrastanti desideri e intime fragilità: “forte mostrarmi/ dentro spezzarmi”. La poesia non offre nessuna risposta a questi interrogativi, ma si pone come uno strumento prezioso di analisi, sfogo e riflessione, guidato dalla dolce musica delle rime in -are.
Alice Serrao
Se tu hai gli occhi azzurro ghiaccio
E lo sguardo è fermo e freddo
Righi il volto di cristallo
E non sai come aggiustarlo.
Certa gente ha il cuore caldo
Ha la chiave per star bene
Sboccia come i fiori a maggio
Ha segreti aperti a raggio.
Anche io lo saprò fare
Scongelandomi all’amore
Intrecciando mani amiche
Che han la luce per vedere
Han segreti aperti a tutti,
non si celano alla gioia
non nascondono il dolore
Hanno in pugno quel bagliore.
Sofia Della Vedova
Scuola Media San Carlo - Rho Classe 2ª
“Segreti” è una poesia fluida e abbastanza ritmica che nasce dall’osservazione di quelle persone che manifestano di avere nel vivere “la chiave per star bene” e in questa scoperta, anche l’autrice si libera e promette a se stessa di sciogliersi all’amore “intrecciando mani amiche” che aiutano a trovare la felicità.
“Segreti” in realtà non ha segreti, ma è quasi un inno alla gioia e alla vita.
In essa troviamo la giovinezza come è giusto che ci sia, capacità costruttiva e pure un po’ di metrica.
Adriano Molteni
Vorrei essere una stella
Vorrei essere dove sei tu
Mi dicono di non arrendermi mai
É così difficile essere diversi da sé stessi
Ma ho camminato da sola
Con la paura di essere giudicata da tutti
E senza che nessuno capisca quanto io
Possa essere importante
Ho camminato da sola, sotto le stelle
Nelle notti di luna
Ho camminato da sola
Senza nessuno accanto
E ora cammino con te
E nonostante tutto sono ancora qui
Camminando a testa alta
Senza temere niente e nessuno
Nel cielo così buio mi sento così viva
Nel mio cammino ho cancellato
tante nuvole nere
E ho fatto spazio ai colori e ai sorrisi
Che la vita mi offre
Ogni storia ha un inizio e una fine
E questa storia credo sia finita davvero
Sono una stella.
Rosita Giacoia
I.C. T. Grossi - Mazzo - Classe 3ª
“Cammino” è una poesia intimistica, in cui l’autrice parla per convincere se stessa della bontà delle sue scelte. Vive un momento in cui il cielo è la vita e i sogni la realtà, dove il cuore la fa da padrone. A questa età l’amore è ciò che si desidera di più bello, è la stella più vivida di un cielo stellato.
Le prime esperienze, la “testa alta”, simbolo della fierezza delle proprie decisioni, la capacità di affrontare le paure, con quel “senza temere niente e nessuno”, svelano anche l’inizio della sua personale maturità.
“Cammino” è una poesia che parla troppo a chi l’ha scritta e a chi legge lascia immagini belle e interpretazioni difficili. La mia però vuol essere una critica positiva, perché in questo lavoro ci sono i giusti prodromi per continuare in una attività di ricerca poetica.
Sono certo che, con applicazione e studio, leggeremo lavori sempre migliori, artisticamente e poeticamente sempre più validi.
Ad majora semper!
Adriano Molteni
La lancetta è irremovibile;
il Suo un soliloquio che straborda.
Stride la campanella
si staglia sull'attesa iperattiva
d'un mercoledì, i corridoi fremono
infestati da spettri festosi.
Schivo parole di piombo
scagliate a capofitto contro
la mia inerzia (è solo la ribellione dei sedici, o forse la delusione dei
giovani).
Mi prometta che questo Aoristo
mi renda donna,
che Vespasiano m'affianchi ancora,
che Enea non si fermi a Roma,
che cinque anni non mi scialacquino,
che sia un tutt'uno: la vita vissuta e quella appresa.
Mariachiara Angelini
Liceo Classico A. Carrell - Milano - Classe 2ª
“Non si sfugge alla macchina” diceva Deleuze, e non c’è macchina più contraddittoria della scuola. In astratto, la visione è quella di sviluppare intelletto, cultura e capacità critica. In concreto, troviamo programmi preconfezionati erogati attraverso strati di burocrazia, meccanismi di valutazione distorti e distorcenti, routine e rituali perpetuati acriticamente.
Non sorprende, quindi, che la tensione fra la meta e il viaggio risulti peculiarmente ossimorica, soprattutto dato che qui la meta e il viaggio coincidono. Sì, “la lancetta è irremovibile”: chimica non si può ridurre da centoventi a dieci minuti, anche se ne basterà mezzo per dimenticare ciò che non ci servirà mai. E non c’è soliloquio che possa strabordare abbastanza da distrarre gli spettri nei corridoi dalla loro festa, magari dotandoli incidentalmente di un corpo. Non ti posso promettere che l’Aoristo ti renda donna, e nei panni di Enea io mi sarei fermato a Cartagine. Ma sono più che sicuro che né cinque né cinquant’anni scialacqueranno mai un animo così autenticamente poetico.
Mattia Pedota
Guardami con gli occhi tuoi gentili
colmi di bui attimi e frasi sottili
cambiati dal tempo educatore di menti
segna il volto rivolto a cieli spenti
Ascolta la mia voce sussurrare
dal vento la nostra storia cullata
non finisce mai di finire, amata
si lascia s'un prato verde scivolare
Insegnami a capire cosa fare
dal ritmo del tuo respiro fragile
tra caldi brividi e varie premure
Accoglimi tra braccia insicure
affini ospiti d'un dipinto agile
in equilibrio imparando ad amare
Aurora Angella
IISS B. Russell - Garbagnate Mil. - Classe 2ª
La poesia cerca di intravedere in un ricordo la risposta ad una domanda che gli uomini di ogni tempo si sono posti: come si fa ad imparare ad amare? In poche parole , piene di suggestioni, l’autore invita l’interlocutore/trice a guardarlo con occhi gentili ma colmi di attimi bui; ad ascoltare il sussurro della sua voce che parla di una storia infinita; ad accoglierlo tra le braccia che somigliano ad un agile dipinto.
Il poeta fa riferimento ad un sentimento che suscita emozioni diverse e spesso contraddittorie, riuscendo a far condividere uno stato d’animo che spesso si prova ma raramente si riesce ad esprimere.
Ombretta Degli Incerti
Ti vedo morire nell'animo,
sento le tue grida silenziose
che rimbombano in quel palmo di mano.
Quella mano che amavi, che ami
e che amerai per sempre;
ma che vedi al tuo collo:
stringe, soffoca, strozza.
Ladra dei suoi sentimenti,
prigioniera dei tuoi.
Di chi è la colpa?
Chi è il mostro? Tu?
Non penso.
Non lo farà più! Non lo farà più!
Ma eccoti con l'ennesimo livido.
Non lo farà più! Non lo farà più!
Ma eccoti di nuovo a terra.
Oh Creatura,
punita dall'amore e coraggiosa nel restare,
prendi coraggio e vola oltre il mare.
Metti fine al libro che di bello non ha da narrare.
Metti fine alla prigione in cui hai smesso di sognare.
Scappa! Non esitare.
Prima che anche tu di bello...
non avrai più nulla da raccontare.
Nausica Slaviero
Liceo Falcone Borsellino - Arese - Classe 2ª
In primis ci colpisce la sensibilità, umana prima ancora che poetica, di chi ha elaborato i versi.
Il tema è impegnativo, difficile e spesso celato da chi ne soffre le conseguenze. Siamo di fronte a un dolore, subito e inflitto, a cui chi scrive cerca di offrire un’alternativa. Non è semplice – non è mai semplice – uscire da una gabbia di sofferenza; ma il poeta invita chi subisce al riscatto: “Metti fine alla prigione in cui hai smesso di sognare” e offre un appiglio, un’ancora di salvezza, pur fosse soltanto costruita con le parole.
Il componimento assume un valore universale, raggiungendo dunque il compito che spesso viene affidato alla Poesia. Chi scrive sa padroneggiare il verso, con apparente semplicità ma buona cura: non possiamo che incoraggiarne la continuazione.
Roberto Mosca
Tutto è leggero e caldo.
Un sottile strato di nebbia
nasconde i tornanti del paesaggio,
ma io cerco di non cadere in
burroni
e cammino fino ad arrivare
davanti allo specchio.
Con le mani bagnate disegno
un paesaggio ignoto
e tra chiazze lucide
e macchie opache,
vedo il riflesso dei miei occhi:
onde marine che si uniscono in un
bacino inesplorato,
modellato a ritmo di esplosioni.
Nuvole oscure gettano
veleno e rabbia sulla mia nave,
ma vedo in lontananza
figure illuminate da una sfumata
cornice dorata,
che osservano il mio dipinto,
eppure il loro guardare
muore dopo pochi attimi
e resto solo con onde e tempesta.
Sopravvive però,
una una figura marmorea,
forse uomo,
forse donna o
forse angelo,
che osserva inerte la mia nave
e fa da stella polare
per il mio navigare.
È troppo lontano
per riuscire a definire
i tornanti del suo viso
e per disegnare
le forme del suo corpo,
ma quando socchiudo gli occhi,
la vista diventa sfocata
e l’immaginazione
colma il difetto della visione,
facendo vedere alla mia mente
una figura angelica
che danza sulle onde del mare
tentando di diffondere
pace in un quadro di tempesta.
Ma basta un attimo di stanchezza
o distrazione,
che le mie palpebre si riuniscono
e rimembro di non aver mai
raggiunto
il riflesso del mare,
ma di esser caduto in un
precipizio
e di esser diventato un papavero
vincolato alla terra,
incapace di fermare il vento;
così annego
nel mio stesso sangue
Matteo Quistaini
Liceo Scientifico E. Majorana - Rho - Classe 2ª
Quella nave che tutti sogniamo, che ci porti in luoghi nuovi, in nuovi spazi ove trovare un dialogo nuovo per migliorarci e continuare il nostro vivere quotidiano, incontrerà quelle “figure marmoree” che cercheranno di disturbare il nostro viaggio con onde e tempesta.
Ma tutto questo verrà superato e troveremo la figura angelica e assieme danzeremo sulle onde del mare e troveremo la nostra pace e il nostro amore, e vivremo nel bene e nel male e niente più ci farà paura.
Piero Airaghi
È tutto così,
mio immobile equilibrista
sul fil di ferro inesistente
che scioglie al sole
i pallidi luccichii d’un tempo.
Tutto sospeso nel niente,
tutto aggrappato alla vita,
appeso per le unghie
che piano piano si staccano dalla pelle
e muore di dolore
anche il più forte dei guerrieri.
E tu, ancora tu,
stai qui vicino al mondo
mio immobile equilibrista,
panorama di morte
tra le croci dei cimiteri di guerra
e gli infiniti e silenziosi campanili
nel deserto delle persone
che vivono con te.
Equilibrista mio!
Andrai giù in mezzo ai monti!
Ma avrai sorriso
almeno una volta nella vita
e te lo ricorderai:
in quel momento vedrai
tutto l’invisibile e mai visto
con i tuoi occhi trasparenti.
E sorriderai a ricordarti chi ti amava
nell’istante esatto in cui tutto muore.
È tutto così,
mio immobile equilibrista!
Nicolò Christian Terrana
Liceo Classico C. Rebora - Rho - Classe 3ª
La poesia propone al lettore la metafora dell’equilibrista, capace di avanzare sospeso sopra il dolore, le croci, le guerre e le sofferenze del mondo, conservando “occhi trasparenti” e forza di sorridere e ricordare chi ci ha amato gratuitamente. L’equilibrista resta immobile e intoccabile davanti alle brutture della realtà, non perché sia impassibile e indifferente, ma perché, come il fanciullino di Pascoli, sa conservarsi intatto e incorrotto. L’equilibrista preserva quella scintilla di umana bellezza che hanno in dono i semplici e pare assumere su di sé una responsabilità che assomiglia al destino. Questo testo, con le sue immagini e i suoi significati, inaugura una strada di conoscenza della poesia che il giovane poeta potrà continuare a percorrere.
Alice Serrao
E il pedale si fermò
sulla sponda del corso d’acqua artificiale
un tonfo sordo nella natura risuonò
il frastuono della mia bicicletta,
tra il gracchio delle cicale.
Mi ritrovai seduto in terra,
con il ginocchio dolorante.
Mi voltai da un lato e dall’altro
in cerca di aiuto
fui avvolto dal verde
il resto del mondo mi parve muto
seguii la strada con gli occhi:
giallo, le spighe di grano
muovendosi a ritmo di vento
l’acqua da lì pareva diamante
è quel che vidi, non mento.
Mi par di vedere anche un fiore, per un istante
Un dente di leone, annidato nell’erba
il fior che con il soffio
attraversa il mondo e lontano si conserva.
Le sue lancette in là spinge
di un color bianco speranza
i prati dipinge.
Un soffio, un desiderio lontano con lui vola
speme di un giovane innocente
ma qualcosa mi ferma,
pizzica il ginocchio viola.
Mi volsi all’indietro, mi tirai in piedi
il terreno mostrava ancora i segni della mia caduta
pieno di vergogna
rimontai in bici
come fosse niente
gamba forte è quella di chi sogna.
Quel giallo,
quel verde,
quel blu,
quel bianco,
erano troppo belli per ammirarli da lontano
e il pedale ripartì.
Lorenzo Pilato
IISS B. Russell - Garbagnate Mil. - Classe 4ª
Quanto fu importante quel “tonfo sordo nella natura” e scoprire tante e tante cose che non avrei mai immaginato di vedere. Quanto è importante di tanto in tanto cadere in basso e trovare la forza che è in noi per rialzarsi e riprendere il nostro vivere quotidiano con più forza, gioia e amore verso tutto ciò che ci circonda.
“Quel giallo, quel verde, quel blu erano troppo belli per ammirarli da lontano”. È una bella pagina chi ci invita tutti quanti e nonostante tutto a continuare e migliorare sempre il nostro modo di vivere.
Piero Airaghi
Di questi pomeriggi sordi ne ho vissuti tanti
In cui scivolo sui panni sporchi
e fracasso sul divano.
Ogni volta mi dico: "Muoviti o muori"
e sempre inizia una sfrenata corsa
fuggo e mai mi volto.
Ma poi ritornano, strisciano nella mia indaffaraggine
e spesso scelgo di morire.
Imponimi tu che fare, illudimi
fammi pensare che basti l'esercizio per la grandezza
lasciami studiare ore, interrogami e valutami
Fammi pensare che per sentirsi completi basti questo
svelami l'appagamento per un lavoro semplice
e toglimi la maschera che mai mi lascia appassionar
Così potrò spendere la mia vita
in questa titanica slot machine
e smetterò di pormi inani domande:
Ma basta scrivere poesie per sfuggirgli?
Ad ogni punto che metto mi supera: rapiscimi.
Ti supplico: Lasciami innamorare
I pomeriggi riacquisteranno il loro senso sfumato.
Piergiuseppe Schiattone
IISS B. Russell - Garbagnate Mil. - Classe 5ª
Questa poesia appare da subito ben riuscita, dotata di stile e personalità; i versi contengono lo slancio e l’indolenza dell’adolescente che si appresta a trovare il proprio posto nel mondo. Un giovane uomo che in potenza ha davanti a sé infinite possibilità, e che si appresta a fare “esercizio per la grandezza” del proprio destino, ma che allo stesso tempo “fracassa sul divano”, scivola nella svogliatezza e chiede che sia un altro a imporgli cosa fare. La libertà, il desiderio di appassionarsi sinceramente a qualcosa si scontrano con il limite di questo “padre pomeriggio” che ha un ruolo difficilissimo e fondamentale: “valutami” dice, mettimi alla prova, aiutami a riempire il buco di questa inquietudine che è fame di vita: “lasciami innamorare”. Che ruolo ha la poesia in tutto questo? Basta scrivere poesie per arginare l’inquietudine? Questa è la domanda che guida l’istinto del poeta e a cui solo la poesia potrà rispondere.
Alice Serrao
Il mio passato non mi tange,
giunge persino ad accoltellarmi,
ma sono passi falsi
di un'ombra sconosciuta;
una videocassetta impolverata,
delle vecchie polaroid,
la pellicola monocroma mostra colui che dicono fui,
ma nemmeno mi rivolge lo sguardo.
I lineamenti malleabili,
mossi melanconicamente
da pittore che non rimembra umano.
Il mio presente si districa in un ruscello
un film senza colonna sonora;
senza archi infatuati e tamburi ruggenti
la tensione è irriconoscibile,
il momento si dilegua nel suo consumarsi,
il romanticismo affoga
in attimi che andranno prima o poi vissuti,
e tutto è piatto in questo mare mosso.
Grazie a dio la realtà deve violare l'acqua,
per trovarmi nudo
Grazie a dio sono uno spettatore
nel mio corpo
Grazie a dio cammino in questo corridoio
e al cervello giunge il buio,
ma non si spinge oltre
Grazie a dio mi trovo dei versi in testa,
sbocciano e marciscono
prima che rintracci i germogli
Grazie a dio il pavimento freddo
è pronto ad accogliere le mie radici
Grazie a dio non ho radici,
non vedo il suolo,
solo il vento,
e la nuova sciarpa che ho comprato.
Grazie a dio perché non saprei chi altro tirare in causa,
che sia fato o caso
senza causa finale
perpetua la natura,
e non credo vesta una barba candida
o un trono dorato,
che decida come un uomo
o che sappia chi sono,
che sia quello che sia;
credo solo nell'aria che mi invade i polmoni
e nella lama che mi porterà via,
là dove i fossili diventano petrolio.
Leonardo Maurizio Caenazzo
Liceo Artistico L. Fontana - Arese - Classe 4ª
Componimento individualistico, pervaso di un nichilismo decadente, confuso ma consapevole. Il “grazie a dio” che ricorre nella seconda parte funge da mera ancora testuale per veicolare, quasi ironicamente, un senso di abbandono vivo e palpitante anche nella rassegnazione. Sul contenuto non c’è molto altro da dire: è una poesia volutamente vuota, ed è significativa in quanto tale. Numerosi sono i versi che si distinguono per originalità e profondità concettuale: “senza archi infatuati e tamburi ruggenti”, “il romanticismo affoga in attimi che andranno prima o poi vissuti”, “la realtà deve violare l’acqua”, “al cervello giunge il buio ma non si spinge oltre”, “là dove i fossili diventano petrolio”. Pregevole è anche l’estrema semplicità con cui l’autore inserisce il tema dell’antropomorfismo (“che decida come un uomo”). Trovo ci sia molto da apprezzare in questo componimento, che, seppur penalizzato da uno stile distante e un contenuto affine a pochi palati, attesta a mio avviso un ottimo potenziale.
Ombretta Degli Incerti
Correva l’anno 1889, l’estate era quasi giunta al termine e il sole caldo e giallo stava diventando più fioco di giorno in giorno, come un cero che inizia a consumarsi lentamente.
Al manicomio di Saint-Rèmy iniziava un nuovo giorno per me, identico a tutti gli altri: sveglia i pazienti, dai da mangiare ai pazienti, lava i pazienti, controlla i pazienti, metti a letto i pazienti.
Nulla di nuovo, mai.
Al suono della sveglia aprii un occhio, richiusi prontamente per il dolore che mi provocava la luce improvvisa.
È disumano svegliarsi alle cinque di mattina, ma le regole del manicomio erano rigide, entro le cinque e trenta dovevano essere tutti svegli, alle sei dovevano essere tutti nel refettorio per la colazione.
In ogni caso io avevo troppo sonno, le giornate tutte uguali e il lavoro stressante iniziavano a pesare sul mio umore.
Trabuc, l’infermiere più anziano, spesso mi prendeva in giro dicendo che sarei diventata presto come uno degli ospiti della struttura e poi se la rideva sotto i baffoni grigi.
A me non faceva ridere per nulla, più che altro mi faceva rabbrividire, perché pensavo che avesse totalmente ragione.
Stava diventando troppo tardi, tentai di uscire dal letto, anche se le lenzuola di lino aggrovigliate tra le mie gambe mi rendevano l’operazione complicata.
Sin da bambina ho sempre fatto sogni tranquilli, ma da quando sono arrivata qui, gli incubi mi tormentano, vedo ombre e riconosco gli strilli e le urla dei pazienti che dopo una giornata di lavoro mi tormentano anche la notte.
Mentre tentavo di ricordare il mio nome, mi diressi verso la bacinella d’acqua per sciacquarmi il volto.
L'acqua fredda mi colpì violentemente il viso e le gocce si seccavano velo- cemente sulla mia pelle, raggiunsi al volo l'uniforme ed un nastro per legare i capelli.
Prima di uscire misi il rossetto rosso carminio che avevo comprato al mercato il sabato precedente sotto consiglio di Trabuc, perchè: “se sei carina i pazienti tendono a trattarti meglio, non sai quante botte e sputi ho preso io a causa di questi baffoni.” Di solito non seguo i consigli degli altri, ma se si tratta della mia incolumità, posso fare un piccolo sforzo.
Dopo la colazione, a base di pane, burro e marmellata, come ogni singola mattina, successe qualcosa di inaspettato.
“Signorina, ho necessità di riceverla nel mio ufficio tra cinque minuti.” Rimasi pietrificata davanti alla parole del direttore, non gli risposi nemmeno e aspettai, senza muovermi che lasciasse la stanza.
Mentre mi incammino nei corridoi per la prima volta non sentii le urla e le imprecazioni dei pazienti, presa com’ero dai miei pensieri.
Per quanto faticoso e duro fosse il lavoro di infermiera, era comunque un lavoro che avevo scelto, e che mi ero guadagnata, mi permette di vivere bene e di riuscire a mandare qualche soldo alla mia famiglia, che vive in Spagna.
Il pensiero di perdere tutto mi strinse la gola ed inizia ad ansimare lievemente, come se l’aria facesse fatica a scendere nel mio esofago.
La pesante porta di legno, che si stagliava imponente di fronte a me, emanava un odore balsamico, e mi faceva sentire incredibilmente piccola.
Chiudendo gli occhi ed espirando profondamente si sentiva chiaramente il profumo della lavanda e l’odore dolce e speziato del timo che saliva dalle narici e si fermava sul palato, mi sembrava quasi di sentirlo sulla lingua.
Posai con non poca riluttanza la mano sulla maniglia di ottone, che un tempo doveva essere luccicante e dorata, ora era più simile al volgare stagno, era diventata una di quelle maniglie che appena la tocchi ti rimane per ore l’odore ferroso sui palmi delle mani, non importa quanto sapone utilizzi per cercare di levarlo.
Entrando nella stanza, la luce soffusa che trapassava le sottili tendine arancioni, invadeva l’ambiente, insinuandosi giocosa tra i singolari suppellettili che il direttore amava mettere in esposizione, rivelava lo spesso strato di polvere sulle mensole di legno lucido e scuro.
“Venga avanti signorina, non abbia paura, si accomodi.” Presi posto sulla sedia di velluto rosso al di là della scrivania dove era seduto l’uomo.
Egli indossava lo stesso completo pomposo che aveva a colazione, troppo pesante per essere messo ad inizio settembre, indicava tutta la boria dell’uomo che non sprecava mai nessuna occasione per vantarsi della sua posizione all’interno dell’istituto, non rendendosi conto che dirige una piccola struttura situata in un paesino dimenticato da Dio.
Mi ritrovai a fissargli il volto, era perfettamente sbarbato, ma le briciole all’angolo della sua bocca suggerivano che non si fosse lavato i denti dopo aver mangiato.
“L’ho convocata perché ho un compito da affidarle” Annunciò solenne l’uomo, incrociando le dita tozze sulla scrivania disordinata, ricoperta dai più disparati gingilli e da molteplici scartoffie.
Espirai, svuotando i polmoni da tutta l’aria che avevo trattenuto per la tensione.
Il direttore rise, di quelle risate profonde, che rimbombano nella cassa toracica e rimbalzano su tutte le superfici del luogo, avvolgendoti facendoti sentire molto a disagio.
“Cosa pensava signorina, ha per caso la coscienza sporca?" chiese con un tono allusivo e viscido.
“No, no, certo che no, mi dica cosa devo fare” “Molto bene” iniziò “C’è un ospite piuttosto speciale in questa struttura, il fratello gli è molto legato e paga bene, a volte qualche extra, ma per questi extra chiede che il fratello sia seguito. Forse l’ha notato qualche volta mentre dipinge nel chiostro. Era un compito di Trabuc prendersene cura, ma ora lui mi serve per qualche lavoro pesante, non certamente adatto ad una ragazza fragile come lei o come le sue colleghe, quindi glielo affido.” Armeggiando con le carte sparse sul tavolo, mi congedò senza degnarmi di uno sguardo.
Era andata meglio di quanto pensassi, la nuova mansione era piuttosto semplice, dovevo solo tenere d’occhio l’uomo mentre dipingeva o faceva una passeggiata.
Tutti conoscevano il pittore, non era un uomo violento e a parte qualche rara crisi o quella volta in cui ha cercato di ammazzarsi inghiottendo il colore ad olio, si poteva dire tranquillo, o comunque più tranquillo della maggior parte delle persone ricoverate al Saint Paul.
Riceveva un trattamento speciale, riceveva più cibo degli altri e la sua camera si affacciava sul meraviglioso campo di lavanda.
Svegliarsi avendo la vista invasa da quell’immensa distesa viola doveva per forza metterti di buon umore, pensai.
Pensai anche che il fratello dovesse amarlo molto per investire tutti quei soldi nelle sue cure, i miei, di fratelli, probabilmente ricordano a malapena il mio nome. L’uomo era conosciuto da tutti nella struttura, un po’ per i suoi inconfondibili capelli rossi come il sole quando scende lentamente, scivolando vischioso ed impalpabile, tra i rilievi delle Alpi francesi.
Bussai alla porta della sua camera, nettamente più sottile ed economica del pesante portone di legno al quale avevo bussato poco tempo prima.
“Avanti.” Mi rispose una voce che proveniva dall’altro lato del muro, maschile e profonda, con un timbro caldo e accogliente.
Entrai, facendo come mi era stato insegnato da Trabuc: “Quando entri nelle camere non fermarti mai sull'uscio a fissarli, si innervosiscono e diventano aggressivi, dirigiti subito verso la finestra e aprila, fai entrare aria e luce.” Era una giornata serena, il sole era alto e le nuvole si sovrapponevano, creando intricate figure, che ora sembravano pennellate casuali di bianco su una tela blu, ora sembravano un cane, un elefante, un carretto dei gelati e un palloncino, uno spettacolo che avrei ammirato per ore se non avessi dovuto svolgere i miei compiti.
Voltandomi vidi l’uomo con tela, cavalletto e colori sotto il braccio, come se stesse tenendo una baguette, mi tese la mano libera.
La strinsi ricambiando la presa vigorosa di mani abituate a dare colpi decisi di pennello, facendo convergere tutta la propria energia nella sommità delle dita ruvide.
“Vincent”, dopo che gli annuii per fargli capire che avevo inteso il suo nome, continuò: “Lei deve essere la sostituta di Tupac, me lo aveva accennato.” Di nuovo non risposi verbalmente ma feci solamente un cenno di assenso che confermava l’ipotesi dell’uomo.
“Gradirei dipingere nel chiostro se ha piacere di accompagnarmi, ma anche se non ha piacere perché non penso che lei abbia molta scelta.” Lo seguii lungo il corridoio e dopo aver sceso le vecchie scale di legno scricchiolante, i miei occhi furono accecati dall’improvvisa ondata di luce che convergeva nella porta che il pittore aveva appena attraversato, per uscire fuori.
Solcato il confine dell’uscio, le mie gambe si bloccarono davanti all’inebriante profumo della florida vegetazione.
Il signor Van Gogh, stava sistemando il suo materiale per dipingere, mentre io cercavo goffamente di sedermi sul muretto di mattoni gialli, districando con fatica le gonne troppo ingombranti per riuscire a muoversi con libertà.
Lo guardai mentre mischiava i colori sulla tavolozza ed iniziava a dare colpi decisi di pennello sulla tela, sembrava uno spadaccino mentre lottava contro il suo acerrimo nemico.
Era passata l’ora di pranzo ed il sole inizia lentamente la sua rovinosa caduta, che anche in quel giorno, lo avrebbe portato alla morte e alla sua predestinata rinascita del mattino seguente.
Vincent sembrava non accorgersi della mia presenza, era un tipo taciturno, non amava di certo scambiare chiacchiere frivole, sopratutto mentre dipingeva.
In quattro ore questa è stata la più grande deduzione che sono riuscita a partorire, non che riuscissi a pensare molto affamata com’ero.
Come non detto il mio stomaco, al pensiero del cibo, emise un brontolio rumoroso, che rimbombò sotto il portico.
Il rosso smise di dipingere e mi rivolse finalmente la parola “Temo di aver scordato il pranzo, ero immerso nella mia pittura, per oggi direi che è abbastanza.” Andrò a riporre la tela e poi mi ritirerò a riposare, così che anche lei possa fare lo stesso.
Annuii grata ed un po’ in imbarazzo per aver emesso un rumore per nulla elegante.
Lo seguii all’interno della struttura, ripercorrendo a ritroso la strada che avevamo fatto poche ore prima per raggiungere il chiostro.
Pensavo, erroneamente, che ci stessimo dirigendo nella sua stanza, invece l’uomo estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi, vecchie e consunte come la maniglia della porta del direttore.
Le chiavi erano tre e tintinnavano tra loro, Vincent ne separò una e la inserì nella toppa di un’entrata che non avevo mai visto aperta.
Con il palmo schiacciato sulle assi piene di schegge spalancò l’accesso spostandosi di lato per farmi passare.
La meraviglia mi riempì gli occhi e le mie labbra, che avevano ormai perso quasi tutto il loro colore rosso, si separarono per lo stupore.
La stanza era piena di tele sgargianti, il giallo ed il blu elettrico sembravano essere i protagonisti indiscussi, i paesaggi e le figure umane, nonostante la loro diversa natura, sembravano creare un crogiolo armonioso di forme e colori.
Emettendo un colpo di tosse, per risvegliarmi dal mio stato di trans, il pittore mi superò e posò la tela a cui si era dedicato per tutto il giorno.
“Mio fratello vuole che io abbia tutto, oltre alla mia camera, ho una stanza per dipingere, anche se preferisco farlo all’aperto e poi ho questa.” Ridacchiando - allora quell’uomo, nonostante l’apparenza burbera, era in grado di ridere, pensai - continuò “a volte cucinano persino degli extra per me, una volta a settimana mi fanno le cipolle caramellate, perchè mio fratello si è raccomandato di far sapere che si tratta del mio piatto preferito”.
Probabilmente il mio volto assunse un’espressione che rivelava l'orrore che provavo al pensiero di mangiare cipolle e Vincent se ne rese conto.
“Riconosco che non lascino un alito gradevole, ma qui non devo esattamente trattenermi con qualcuno” Il suo ragionamento non faceva una piega.
Posai ancora una volta lo sguardo sui dipinti e mi congedai.
Il giorno seguente, rifeci tutto da capo, e così ancora, ed ancora.
Correva l’anno 1890, era aprile, un aprile piuttosto piovoso a Saint-Rémyde- Provence.
Si poteva dire che io e Vincent avessimo fatto amicizia, spesso gli facevo domande sulle tele che mi colpivano di più, come il quadro notturno con il grosso cipresso in primo piano, o l’aiuola di iris con un singolo fiore bianco tra molti viola.
Anche se aprile stava finendo, la pioggia non cessava, e Vincent era costretto a dipingere all’interno, io mi accomodai su una sedia di paglia intrecciata e lo osservavo, facendogli domande, a cui lui rispondeva prontamente.
Mentre preparava i colori, come ogni giorno prima di iniziare a macchiare con violenza il tessuto, Il tagliente bordo del tubetto di zinco scorrendo sul polpastrello dell’indice destro.
Il risultato era uno di quei tagli sottili, ma profondi e particolarmente dolorosi, dal quale usciva una generosa quantità di sangue.
“Dannazione!” esclamò Vincent lasciando cadere a terra il tubetto aperto.
Io scattai in piedi, tirando fuori dalla tasca del mio grembiule le garze e il disinfettante, dotazione obbligatoria di tutti gli infermieri del Saint Paul.
Lo feci sedere al mio posto e mi accovacciai di fronte a lui, prendendo la sua mano ferita e iniziando a disinfettarla.
"Brucerà", annunciai.
Lui annui consapevole del dolore, in fondo si era tagliato (o gli avevano tagliato, non mi ero mai permessa di indagare troppo o di fare domande invadenti sulla questione) il lobo di un orecchio, non era sicuramente nuovo alle ferite al bruciore del disinfettante.
Nonostante ciò si vedeva che si sforzava di non muoversi, limitandosi ad emettere flebili sibili di dolore.
Entrambi stavamo focalizzando i nostri occhi sulla ferita, restia a smettere di sanguinare, nonostante io ci stessi soffiando sopra per alleviare il dolore.
Fu Vincent, a rompere il silenzio, per la seconda volta da quando ci conosciamo.
Dopo quel nostro primo incontro ero sempre stata io ad avviare le conversazioni.
Rivolgendo i suoi occhi cristallini verso la vecchia finestra che schermava noi dalla pioggia, ma che non era abbastanza spessa da tenere fuori l’odore del petricore che saliva dalla vasta distesa di lavanda, che a giugno sarebbe tornata ad essere fitta e di un viola brillante, come tutti gli anni.
“Le mie condizioni sono migliorate.” credendo che si trattasse di una domanda risposi annuendo, poi continuò “Pensando a tutto il denaro che mio fratello spende per me, un profondo senso di colpa mi assale.” Emise un sospiro e terminò “Ho deciso di andarmene a metà del prossimo mese”: “E cosa farai?" “Continuerò a fare l’unica cosa che so fare, dipingerò, nonostante tutti odino i miei quadri e il mio unico acquirente sia mio fratello”.
“Signor Van Gogh” “Vincent” mi corresse prontamente.
“Vincent, io penso che i tuoi quadri siano meravigliosi, l’ho pensato la prima volta che li ho visti, quando sono rimasta impalata a fissarli e lo penso ancora, un giorno il mondo li guarderà come li vedi tu, come li vede tuo fratello e come li vedo io.” “Spero che la sua convinzione sia profetica, ma dopo tanti anni ho smesso di crederci e ho fatto pace con il fatto che la mia arte sia incompresa”.
La ferita era fasciata e Vincent riprese a dipingere silente, muovendosi come un gatto nero nella notte del solstizio d’inverno.
Io mi risedetti e quel giorno non volò più una parola.
Sfruttai al massimo quelli che sapevo essere i miei ultimi giorni con il pittore, feci tutte le domande che ancora non avevo fatto, bevvi con gli occhi di quei colori sgargianti che si riversavano densi sulla tela.
La mattina del 17 maggio 1890 mi risvegliai alla solita ora, ma sentivo che qualcosa non andava perché la mia camera era invasa da un odore che non mi risultava familiare, come di erba appena tagliata e polline.
Mi alzai infilandomi le pantofole di panno e vidi qualcosa di giallo e bianco sulla mia toeletta. Appena riuscii a mettere a fuoco, nonostante le ciglia impastate dal sonno, notai che si trattava di un mazzo formato da quattro girasoli e da un iris rigorosamente bianco, come quello del suo dipinto.
I fiori erano accompagnati da un biglietto.
Avrei potuto riconoscere quella calligrafia tra mille, il tratto familiare delle mani che avevo osservato lavorare per mesi, mi provocarono un calore nel petto e un piccolo sorriso malinconico spuntò sul mio viso.
Il foglio recitava “Che sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di provare qualcosa?” “Addio, Vincent” sussurrai alle pareti della mia stanza, come se le stessi rivelando il segreto della vita “Un giorno il tuo nome sarà immortale, ne sono certa.”
Benedetta Visentin
I.I.S.S. B. Russell – Garbagnate Mil. Classe 5ª
L’autrice di questo racconto, oltre a saper scrivere, sa narrare. A parte qualche problema di concordanza dei tempi e qualche piccolo errore di punteggiatura, la sintassi è generalmente pulita, il vocabolario ampio e il testo molto scorrevole. Il tema non è banale, ma al contempo non mira ingenuamente a stupire: è una storia interessante esposta con grande naturalezza e maturità, un equilibrio che non è da tutti raggiungere. La narrazione procede al giusto ritmo con le giuste pause, le descrizioni risultano ricche e vivide, il finale è ben concepito e lascia il segno. Non si può dire vi siano particolari colpi di genio in quest’opera, eppure andrebbe presa come esempio di come si scrive un racconto. Soprattutto se è alle prime esperienze, credo che l’autrice abbia una spiccata predisposizione naturale per questo genere letterario.
Mattia Pedota
Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Genesi 22,1
Quel giorno la barba gli prudeva come mai prima. Forse dei granelli di sabbia provenienti dalla tempesta del giorno precedente si erano incastrati proprio nel punto dell’attaccamento con il mento, o forse qualche minuscolo insettino vi aveva trovato lì riparo. O forse era semplicemente l’ansia.
Si alzò faticosamente dalla propria stuoia e allungò la mano per cercare, ancora con gli occhi chiusi, qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa. La sua vita era ormai così confusa che non sapeva darsi risposta nemmeno ai quesiti più banali. Fu costretto ad aprire lentamente e stancamente gli occhi. I raggi di luce fendevano la stanza come lame sottili, come se stessero cercando di illuminare qualcosa che si nascondeva da loro.
Quel giorno la luce spaventava particolarmente Abramo. Egli sapeva che giorno fosse, sapeva che cosa avrebbe dovuto fare. Ciò che Dio gli aveva annunciato, non poteva certo essere contraddetto. O per lo meno, non poteva certo essere contraddetto da un povero vecchio che aveva avuto un figlio all’età di cento anni. Proprio non poteva. O Dio, Dio, dov’è Dio? Il vecchio si apprestò a recuperare le bisacce che aveva preparato per il viaggio e non tardò a svegliare il giovane figlio Isacco, al quale aveva già spiegato che sarebbero dovuti partire. Si incamminarono senza dire nemmeno una parola, senza che nemmeno un suono si librasse nell’aria in cerca di ascolto, senza nemmeno un respiro emesso fuori posto. C’era un inconsapevole senso di coscienza in entrambi: Isacco non avrebbe mai immaginato quale compito Dio aveva affidato al padre, Abramo non avrebbe mai capito perché Dio aveva assegnato a lui tale fardello. O Dio, Dio, dov’è Dio? Il sole batteva sempre più forte quando, sulla strada per il monte Moria, Abramo e Isacco incontrarono un mercante di vini dal quale il vecchio comprò una piccola anfora che emanava un odore asprigno particolarmente forte. La stanchezza lo stava già sfinendo, e il silenzio impassibile del giovanissimo figlio rendeva la situazione ancora più insostenibile. E Abramo allora bevve. E mentre il caldo fluiva giù per la sua gola, egli rimembrò la voce di Dio, che gli ordinava di offrire Isacco in Olocausto.
Ma la voce di Dio aveva un suono che non si sarebbe mai immaginato: aveva il suono della sua voce, della voce di Abramo. Soggiunse la paura, così nera e così famelica come non l’aveva mai provata. No, non era vero, l’aveva già provata. Era successo il giorno dell’annuncio della gravidanza di Sarah: un inspiegabile senso di angoscia aveva invaso il vecchio Abramo. Scappò dal ricordo. Dio gli aveva affidato un compito, e non c’era tempo per pensare all’illusione che il sole e il vino gli avevano provocato.
O Dio, Dio, dov’è Dio? La strada proseguiva in salita, ma le forze necessarie al vecchio erano ormai scomparse: aveva bisogno di riposo. Padre e figlio si accasciarono, stremati, boccheggiando alla ricerca di una respirazione regolare e di un po’ di energie. Il mondo attorno ad Abramo gli appariva ormai sfocato, la terra sembrava deformarsi e dilatarsi verso il cielo. Egli seguì con lo sguardo le figure attorno a lui innalzarsi e mescolarsi, e nella sua testa rimbombavano le parole di Dio. Continuò a seguire le figure, finché non vide il cielo, e nel cielo la figura di Dio che scandiva le parole che continuavano a rimbalzargli nella testa. Dio aveva la voce di Abramo, le mani di Abramo, la barba di Abramo, la veste di Abramo, ma non aveva volto. La luce si trasformò improvvisamente in tenebra. Era come se il proprio incubo più grande si stesse materializzando di fronte a lui, e non sapeva nemmeno quale fosse. No, non era vero, lo sapeva. Il giorno dell’annuncio della gravidanza di Sarah, si sentiva così inadatto al ruolo che Dio aveva designato per lui che aveva sentito il proprio cuore esplodere dentro al proprio petto. Come poteva lui, così vecchio, poter essere il capo di una stirpe così numerosa quando a malapena riusciva a reggersi in piedi? Non ci credeva più, pensava che forse in fin dei conti Dio si fosse sbagliato, che non era lui il prescelto; ma quella gravidanza… Si sentiva piccolo, morente.
Doveva scappare dalla paura, correre da Dio e infrangere tutti i propri dubbi. O Dio, Dio, dov’è Dio? Non si era mai sentito così contraddetto in tutta la propria vita. Lì, sulla cima del monte Moria, con il collo del proprio figlio in una mano e il manico del pugnale nell’altra, Abramo era come paralizzato. In una mano c’era ciò che amava e che lo spaventava così tanto, nell’altra lo strumento con cui poteva distruggere tutto. Le lacrime scendevano come spine e si incastravano nella folta barba del vecchio. Abramo aveva gli occhi chiusi, e la visione di Dio continuava a tormentarlo. Decise di aprirli, di tornare al presente. La luce che rimbalzava sugli occhi di Isacco, occhi che piangevano paura, lo accecava. Luce e tenebra si mescolavano, si colpivano e si abbracciavano, si pugnalavano e danzavano, si coprivano e si spogliavano.
Era troppo per un vecchio di cento anni come Abramo, non ne poteva più. Decise di colpire. Luce e tenebre scomparvero e tutto ciò che rimase era la faccia impaurita di Isacco. E lì capì. La mano di Dio, la mano di Abramo, fermò il braccio assassino. L’inadeguatezza, il senso di responsabilità, la stanchezza, la paura, tutto scomparve. Rimase solo Isacco, lì, davanti a lui, che respirava vita. Un flusso di luce di un colore che non aveva mai visto abbandonò il corpo del vecchio e fluttuò nell’aria, illuminando la figura del giovanissimo figlio. Abramo si accasciò al suolo.
Aveva trovato Dio. Là c’era Dio.
Matteo Zandonadi
Liceo Scientifico Falcone Borsellino - Arese - Classe 5ª
Anzitutto è apprezzabile il coraggio. È infatti difficile affrontate un tema universale – per di più legato alle Sacre Scritture – riuscendo a non cadere nel banale. Chi ha scritto questo breve racconto ci è riuscito.
La storia è quella che tanti di noi hanno avuto modo di conoscere sin da bambini: il Dio di Abramo, che in modo inatteso gli comanda di uccidere il figlio Isacco.
Lo scrittore non si ferma a quanto sarebbe più agevole, alla semplice narrazione lineare dei fatti: sin dalle prime righe si rivela una capacità di introspezione, direi ancor più di ispezione dell’animo umano, in questo caso del povero Abramo e della pena che lo sovrasta.
Ci pare di esser lì, noi con lui, ad affrontate la condanna del viaggio verso un compito disperato e apparentemente irrevocabile. In ogni istante il lettore percorre la disperazione di Abramo, la sua paura, il dolore e l’istinto di ribellione, in quel ripetuto intercalare: “O Dio, Dio, dov’è Dio?” Un testo non comune, un talento che riesce a conquistare senza che nulla sia stato scritto fuori posto: una bella prova.
Roberto Mosca
L’odore di vaniglia mi inebriò la mente tormentata. Mi alzai e con i piedi nudi tastai il parket e sentii il freddo di esso, che mi gelò il sangue. Non volevo ancora iniziare quella giornata, ma dovevo e lo feci. Andando in cucina, mi sentii sollevata vedendo mia mamma mentre cucinava un dolce con la vaniglia: tra i miei preferiti. Una scena di normalità in quella casa che di normale non aveva nulla.
Mi chiamavo April Dawson, avevo diciotto anni e vivevo in un piccolo paese in Olanda, nella provincia di Maastricht. Avevo dei lunghi ricci che mi avvolgevano il volto dalla forma allungata. Spostai qualche ciocca da davanti gli occhi verdi e segnati dalle occhiaie, per capire se quella situazione fosse reale.
"Mamma, cosa ci fai qui?". Dissi con tono perplesso.
Era tempo che non ci vedevamo, un anno o poco più, da quando papà era morto. Era andata via durante la notte, scappata chissà dove, lasciandomi solo una lettera.
"Scusa tanto, ti voglio bene: la mamma.".
Da quel momento non avevo più avuto sue notizie ed ero rimasta sola in quella grande casa, in cui passavo meno tempo possibile, poiché altro non faceva che ricordarmi che non mi era rimasto nulla e che tutti mi avevano abbandonata. Era strano vederla, ma mi dava un sollievo: stava bene, non era successo nulla. La conoscevo bene come donna e nonostante le mille domande, sapevo che tutto ciò che aveva fatto era per proteggermi; perciò, altro non feci che correre a darle un abbraccio: le domande le avrei fatte dopo, avevamo tempo. Era una bellissima donna, con i capelli lunghi e ricci, e gli occhi verdi simili ai miei. Sentire il suo cuore battere al contatto con il mio fu come essere al sicuro di nuovo dopo tempo. Le nostre anime si collegarono immediatamente e per chi non conosceva il nostro passato, sembrava non ci fossimo mai perse. Mi mise una mano tra i capelli e mi accarezzò la cute, per chiedermi scusa ancora e ancora, ma non le avevo mai dato nessuna colpa in questo periodo. Mi ero fatta molte domande ed ero stata molto in pensiero, ma non avevo mai creduto dipendesse da lei: se era andata via, era perché non poteva fare altrimenti.
"Ciao amore, non so nemmeno con che faccia presentarmi a te dopo questo anno, ma ti prego, lascia che ti dica. Mi sei mancata così tanto, sei sempre bellissima, stai bene? Ti vedo un po' dimagrita, ma resti sempre un fiore." Mi rispose con le lacrime agli occhi. Era sempre la solita: cento domande e non mi lasciava il tempo nemmeno di rispondere alla metà prima di porne altrettante.
"Non preoccuparti mamma, mi sei mancata tanto. Ho solo avuto tanta paura ti potesse essere successo qualcosa, sono stata in pensiero". Sorrisi, perché non volevo si mortificasse e volevo che non si creasse imbarazzo.
"Siediti tesoro, ho tanto da dirti. Tuo padre voleva che tu avessi questa, non era corretto che tu non la leggessi".
Mi porse una lettera, in una busta bianca con i ricami rossi e un timbro del medesimo colore. Una scritta in inchiostro sul fondo: "Varsavia-Polonia. Per April".
"Cara April, spero tu non stia leggendo, perché se così è, significa che è successo: non sono più lì per te. Vuol dire che i miei studi sono finiti in mani sbagliate e le mie scoperte non sono più mie. Il mondo è ostile piccola mia, te l'ho sempre detto e ne ho avuto la prova negli ultimi 10 anni. È il 12 agosto 2007 attualmente e io sono a Varsavia, non è vero che mi trovo in Portogallo dalla nonna. Non so quando e se leggerai, ma voglio essere certo che avrai qualcosa, nel caso non dovessi esserci più per proteggerti. Non posso dilungarmi troppo, o almeno non qui. Sei sempre stata ciò che di più bello la vita mi abbia regalato, insieme a tua madre, e non smetterò mai di amarti. Cerca la forza di farcela, continua a vivere anche per me e sorreggi tua mamma: non è la dura che vuole apparire.
Sono orgoglioso di te e sarò sempre con te, in ogni tua decisione.
Il tuo amato papà 52°15′05.4″N 20°59′32.28″E".
Per qualche secondo ci fu un grande silenzio dovuto al mio stupore: tutte le mie certezze erano svanite. Chi era mio padre? Cosa aveva scoperto? Cosa ci faceva a Varsavia? Era stato ucciso? Una gran confusione mi annebbiò la mente e ogni parola mi morì sulla punta della lingua.
“Tuo padre ha dedicato la vita ad un progetto, molto rischioso e aveva già considerato la possibilità di morire, perciò ha fatto di tutto affinché tu fossi al sicuro. Non posso dire troppo, non ora, ma vorrei tu venissi con me, perché ho da mostrarti e raccontarti molto. Mi ha fatto giurare che saresti stata qui finché non avessi fatto perdere le tracce delle sue scoperte, per questo sono sparita: non potevo fare altro. Mi ha anche fatto promettere che ti avrei parlato di ciò, di tutto, perché non era mai stato suo volere mentirti. Non voglio metterti fretta o costringerti, ma non mi sarei mai perdonata se non ti avessi fatto avere questa lettera.”.
Aprii gli occhi a causa del turbolento cambio di binario. Ero su un treno diretto a Varsavia, per andare a vedere dove conducessero quelle coordinate. Che fossi ancora rintronata e sbalordita era dir poco, perché la mia vita era appena stata stravolta, però non avrei sopportato il rimorso di non partire. Mio padre è stato perfetto in tutto, era il mio eroe e volevo fare mio ciò che era rimasto del suo ricordo. Le pareti chiare del treno mi avvolgevano, mentre tentavo di riposare, rannicchiata sulla spalla di mia mamma. Chiusi nuovamente gli occhi, per scacciare via i pensieri che si intrecciavano nella mia mente come vimini in un cesto. Eravamo in treno già da diverse ore, ma il viaggio era lungo e tortuoso per arrivare dall’Olanda alla Polonia. La mia compagna di avventure dormiva ancora, perciò decisi di prendere le cuffiette e di mettere la mia canzone preferita e, abbracciata dal vento originato dal movimento dei passeggeri, crollai.
“Tu sei stata qui durante questo anno?”. Chiesi sbalordita.
“Si amore”. Mi rispose.
Era tutto a dir poco spettacolare. Camminammo per le strade della città e ne approfittai per ammirare le strade, la struttura delle case e la presenza rigogliosa della natura e dei fiori. Amavo viaggiare e in quell’anno senza papà era senza dubbio ciò che mi era mancato maggiormente; era nostra abitudine partire spesso insieme, anche solo per un giorno, e in diciassette anni della mia vita mi aveva portata in giro per i luoghi più belli e paradisiaci del mondo. Mentre coloravo una tela col cuore, fui riportata alla realtà dalla voce della donna con me.
“Siamo quasi arrivate, dobbiamo giungere alla fine del sentiero.” Accennai un sorriso: mi era mancata tanto.
Uno, due, tre, quattro, percorremmo una scalinata che mi sembrò infinita, e arrivammo davanti ad una struttura bianca, che somigliava ad una banca, situata al centro di un boschetto di castagni. La mamma mi prese la mano, andammo insieme su un grande quadrato rosso, posto nel mezzo del pavimento roccioso.
“Fai un gran respiro, e non avere paura.” Il vuoto.
Cademmo nel vuoto e per qualche secondo ebbi la sensazione che sarei morta, che fosse la fine. Con il cuore in gola guardai l’altra che abbozzò un sorriso.
“Tuo padre e le sue idee inusuali: lo sai com’era fatto”.
Dopo diversi secondi per riprendere fiato, scoppiai a ridere: era proprio una cosa da lui.
Ci trovavamo in una stanza sotterranea buia, illuminata da candele poste sul pavimento. La mamma mi fece strada, e aprì una piccola porticina. Mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie mentre tentavo di varcare quell’entrata.
“Bello, vero?”. Disse lei, sapendo già prima di udire la mia risposta che amavo ciò che vedevo.
Una stanza totalmente opposta alla precedente, con le pareti giallo pastello, illuminata da una serie infinita di pietre brillanti sul soffitto. Un gran pavimento legnoso ricopriva il terreno e ai lati della camera erano presenti diversi vasi fioriti. Mi avvicinai e sfiorai i petali delle rose azzurre presenti in un vaso: i miei preferiti. Accanto ad esso c’era una cornice con una foto della nostra famiglia, e una letterina che avevo scritto a mio padre per la Festa del papà, molti anni prima. Trovai lì accanto un diario dalla copertina verde smeraldo e lo presi e lo misi nella mia borsa, dopo aver chiesto il consenso a mia madre. Era il diario dei suoi pensieri, delle sue scoperte: era tutto ciò che rimaneva di lui. Un gran lampadario barocco era posto al centro della parte superiore e, insieme alle colonne poste all’entrata, donava un tocco principesco a quel bunker. Regnava l’intelligenza artificiale, e rimasi sbalordita dinnanzi a robot che svolgevano centinaia di funzioni differenti.
“Lui passava tanto del suo tempo qui, e per sentirti più vicina ha arredato tutto come ti sarebbe piaciuto.”.
Aveva ragione, lo adoravo: mi sembrava di star sognando.
“Mamma perché quelle sono rotte?”. Dissi, indicando le teche di vetro presenti su dei piedistalli (dodici per la precisione).
“Dentro a ogni teca c’era una gemma, che ho distrutto, affinché nessuno potesse trovarle. Erano oggetti nuovi, nati qui, dalle sue mani.”. Ci guardammo e io annuii senza dire nulla, perché avevo così tante cose da voler dire, che non sapevo da dove iniziare.
“Vieni, devo mostrarti il motivo per cui siamo qui.”.
C’era altro? Non era sufficiente un bunker sfarzoso dall’altra parte dell’Europa in cui mio padre creava gemme circondato da tecnologie all’avanguardia? “Ho tenuto totalmente integro solo questo, perché ci tenevo lo vedessi, e non che lo immaginassi. Hai una meravigliosa mente creativa in grado di creare dipinti solo attraverso le parole che ti vengono dette, ma volevo tu lo vedessi per ciò che è stato.”.
Davanti a me si presentava una struttura imponente in vetro e metallo, con un cassetto dalla quale uscivano fiocchi di neve, fulmini e scintille. La stanza era silenziosa a tal punto che sentivo queste ultime infrangersi sul vetro.
“Papà aveva creato questa macchina, che consente di modificare l’andamento del passato e del futuro. È estremamente pericolosa e ho aspettato che tu fossi qui per distruggerla insieme. È stato il grande lavoro a cui ha dedicato otto anni, ed è quasi completa. Non ha avuto il tempo di ultimarla e renderla funzionale, ma ne era veramente fiero. Se n’è andato facendo qualcosa che amava davvero tanto e noi dobbiamo andare avanti e lasciare che la sua anima riposi in pace.”.
Mio padre era un genio, era speciale, era uno su un milione e io lo sapevo già, anche prima di vedere tale operato. Ero veramente fiera di aver avuto un genitore del genere, ma mia mamma aveva ragione: dovevamo tornare alla vita di prima. La vita che nell’ultimo anno era stata così pazza, assurda, soffocante per me che da ciò ero stata esclusa da sempre. L’unico modo era distruggere tutto e tornare a casa nostra. Diedi un abbraccio alla donna con me per ringraziarla, per essere stata una super mamma, nonostante tutto.
“A noi l’onore di rendere papà un’anima libera”. Dissi io dopo aver preso un lungo respiro.
Stavamo strappando via dal mondo un’invenzione in grado di stravolgere l’andamento dell’intera umanità, stavamo trasformando un rivoluzionario in un semplice uomo. Eravamo pronti per mettere fine a tutto e ricordarci di lui come l’amore della nostra vita.
Rotto l’ultimo pezzo di vetro, mi sentii nuovamente leggera, per la prima volta dopo tanto.
“Buongiorno mamma, io scappo sono in ritardo per andare in università.” “Amore ferma, prendi almeno un po’ di torta, non correre, scrivimi quando arrivi, prendi l’ombrello dopo dovrebbe piovere, buona giornata ti voglio bene.”.
Presi l’ombrello e rubai velocemente della torta e dopo un bacio e un “Anche io, tanto” corsi verso la fermata. Erano passati tre anni e tutto era tornato come prima, eravamo di nuovo felici: una famiglia come le altre, o quasi. Seduta sulla metro presi il diario di papà dalla tasca e ne lessi qualche pagina.
“ 5 cose che mia figlia deve sapere: Insegui i tuoi sogni, sempre.
Vai ai concerti dei tuoi cantanti preferiti, e trascinati anche la mamma (se ci riesci).
Non aver paura di sbagliare nella vita, ti aiuterà a crescere.
Tieni sempre della crema di pistacchio nascosta in casa: non si sa mai.
Sono fiero di te, per sempre.”.
Ylenia Longo
Liceo Classico C. Rebora Classe 2ª
Un racconto che parla di mancanza e di distanza, perché l’immediata scomparsa della madre dopo la morte del padre e poi il suo ritorno misterioso, fanno nascere nella protagonista una serie di domande sul suo passato. Le sembra di non conoscere più suo padre e inizia un viaggio, insieme alla madre, per comprendere i suoi segreti, per vedere il posto dove ha vissuto e lavorato nei suoi ultimi anni, dove aveva creato una macchina che avrebbe potuto modificare il passato e il futuro. È un viaggio alla ricerca di sé, delle proprie radici, per liberare sì il mondo da una scoperta che poteva stravolgere l’umanità, ma soprattutto per trasformare «un rivoluzionario in un semplice uomo», come precisa la protagonista e per ricordarsi di lui come l’amore della sua vita. Nel racconto l’amore genitoriale è in grado di superare la non presenza e dare speranza al futuro della giovane del racconto.
Maria Grazia Cislaghi
La porta si spalancò sbattendo, lui e le sue idee sgorgarono fuori, come acqua che squarcia la falla in una diga, una cascata si dipanò per i corridoi della casa in formazione compatta; lei venne travolta da ciò, ritrovandosi bronzo di Riace sul fondo del salotto: "amore mio faro della mia notte diurna sole della mia primavera notturna, ho passato l'estasi! Ho visto l'arte e scoperto la sua origine, discerno la fine dall'inizio e comprendo che sono medesimi differenti punti di una circonferenza, le vedo: architetture dettagliate, la prima barocca l'altra gotica e viceversa finché non si congiungono in un Miró, l'arte giunge dalla vita e la vita è perché da essa nasca l'arte, e l'arte non è nient'altro che un pennellata nascosta, una rifinitura leonardesca alla vita, insignificante decoro nella sala più remota di Versailles. L'effetto farfalla perché una farfalla regge il significato di tutta l'esistenza!" Agguantò la bottiglia di vino sul tavolo rabboccando il calice nelle mani della ninfa, lo sfilò dalle dita allentate e lo tracannò tutto d'un fiato, stava già riprendendo il soliloquio, quando lei parlò: "hai creato qualcosa?" "Amore mio ho creato la creazione, ho creato l'idea di creare, devi vederla amore vieni, vieni a vedere la mia progenie." L'onda la ingabbiò in uno dei suoi flutti e lei si mosse al suo seguito verso la stanza fonte dell'acqua viva, bisbigli ovattati, in apnea, giungevano e senza salutare superavano i timpani. La porta si richiuse ed erano lei e l'opera completamente parte dell'uomo: "lo vedi amore, è tutto ed è il niente è il ludibrio dei critici e il ribrezzo delle loro penne, il rifiuto della tecnica e il virtuosismo più sublime, sono io e l'unica linfa degna di me, l'effige sulla mia tomba e il mio sarcofago, ci sono io oltre l'ossidiana immobile, tesoro." Lei tentava di aggrapparsi all'immagine che le si parava in fronte.
Un quadrato nero si stagliava sulla parete, relegando ai bordi dell'opera uno sfondo bianco, ossidiana pura, l'oscurità si delineava però misteriosa nella sua apparente semplicità.
" Parli come recitando preconfezionati versi" "Sono un uomo dello spettacolo mia cara" "Ti prepari i discorsi per me?" I suoi occhi indugiarono su quell'uomo così spesso schivo e ombroso mentre rimuginava sentimenti contrastanti. Le sopracciglia sorprese danzavano fra l'uomo e l'opera, alla ricerca dello sguardo indecifrabile, senza però rintracciarne la fonte, tanto flebile era il confine fra le due entità.
"Non parlo solo a te o musa, declamo per la natura, le guerre e i venti, per la notte che attende le anime e per la prole dei loro passi; per i posteri e per i colibrì stanchi, per me stesso e per l'arte, con tutta la superbia della mia umanità." Mentre lui declamava lei lo scrutò nell'iride quadrata dell'opera che la fronteggiava, nell'ombra la luce risuonava: virtuosismi in rigagnoli dorati si contorcevano arditamente in forme ben delineate e fumose.
L'epidermide corvina era agitata da capillari sinuosi e crepitanti; non era chiaro come vincessero il pudore dell'ossidiana ma le sfumature dorate parevano vive negli incavi sfuggenti.
"Cosa rappresenta?" "Mio amore già lo dissi! Mi farai esaurire i versi! La vita, l'arte e la loro origine e le altre cose che non rimembro." Continuò nella sua euforia gioiosa: "E che domanda poi, io sono un artista non un noioso critico, non dò etichette né confini: mi concedo nudo alla corrente con le mie pretese divine e i loro frutti." Nelle sue parole ondeggiavano le ombre della vecchiaia imminente e un impeto ancora giovanile, come se la presenza mano mano più ingombrante della morte non si accompagnasse al timore reverenziale e placido degli anziani. Essa scatenava bensì furori quasi adolescenziali, giocando con il brivido caro a coloro che si ritrovano assuefatti al confronto spavaldo con l'antica signora.
Egli per la verità non aveva granché di cui preoccuparsi per i suoi imminenti anni, ma la morte di un caro amico e i primi lievi acciacchi lo avevano spinto nell'incertezza. E l'incertezza si era tramutata in terrore all'idea di condurre con sé nella tomba: ispirazioni, idee e opere incompiute. Nel suo cuore ateo la cupidigia dell'immortalità si era introdotta costringendolo alla creazione. La fanciullezza di fine vita lo aveva colpito ben prima dei reumatismi e lo salvaguardava dal suo folle raziocinio: perché dannarsi nei suoi ultimi anni per un senso di infinito improprio per un mortale? Lui creava imperterrito e lei anelava smarrita la fine di quella febbre assurda.
"È questa la fine? È questo il tuo capolavoro?" "La fine sarà, forse, solo la morte: non posso inseguire capolavori, sono solo una perversione umana. Ho mille lingue nella bisaccia e un dio straniero che mi sussurra all'orecchio, e se egli dovesse tacere proverò a parlare al suo posto, e forse sarò Dio o uno stolto, chi lo può sapere?" Lei sorprese le proprie iridi chiare ipnotizzate dalla creazione, la voce l'avvolgeva.
"Perché ancora ti danni? Ti rinchiudi per giorni in questo studio angusto, ti adombri e non mi parli per essere poi ebbro solo pochi istanti" "Il dio bisbiglia incomprensibile, io lo devo decifrare e dargli vita: guarda la mia opera, mirala! Non è bocciolo di ozio e chiacchere!" "Ma perché così? Perché ci fai questo? Sei sempre stato artista e uomo, ed io ho amato entrambi, cos'è cambiato?" "Sempre mi sono adagiato sugli allori narcisistici degli artisti, tutti, me compreso, pretenziosi e pieni di sé, ignorai così tanto l'arte gloriandomi delle poche creazioni riuscite come tutti gli altri. Ora incombe mesta la mesta signora ed io ho a malapena saggiato la fonte dell'eternità! Non parliamo di noi, parliamo di ciò che potrebbe essere e renderlo realtà! Sono Dio e sono uomo e l'infinito deve sgorgare nella mia mortalità! Non avrò mai il tempo senza l'immortalità!" Lei era confusa, ferita.
"Sei un vile non un dio!" Lo si poteva considerare pazzo? Più semplice che perdersi nelle sfumature di significato fra quel vocabolo e il sostantivo artista. Lei non lo capiva e non lo poteva capire, nonostante si fossero amati e forse s'amassero ancora. Anche lei creava ma non aiutava il dialogo. Lei creava poesie volutamente anonime, parole leggiadre atte a scomparire nelle frasche descritte: lei creava per pace, lui per conflitto. Lei addolciva il suo vino con versi vacui, lui si ubriacava del travaglio della creazione. Lui l'aveva sempre cinta inebriato dal gesto sconsiderato considerandolo tradimento verso il suo dio ignoto.
E ora lacrime e pastiglie allungavano i giorni aspri in quel locus amoenus lontano dalla città, reso così claustrofobico dalle incomprensioni degli amanti. E così gli strascichi di gioventù sbiadivano nel viso più giovane di quello dell'uomo. Capita che più di una vita si viva in una sola esistenza e lei giaceva chiedendosi se fosse pronta a una morte per una rinascita, la valigia riposava al suo fianco completa a metà. Si chiedeva se avesse le forze di compiere quel salto o se preferisse lasciarsi andare all'abbraccio dell'entità che regnava nell'aria, farsi sedurre e ingannare da quel fiume impalpabile che ormai le cingeva le ginocchia.
Leonardo Maurizio Caenazzo
Liceo Artistico L. Fontana – Arese Classe 4ª
Il tema è impegnativo, e riuscire ad essere originali – paradossalmente – trattando di Creazione, non risulta affatto semplice.
La scrittura è elaborata ma al contempo fluida, ci trasporta immediatamente nel mondo dell’arte, in tutti i suoi flutti impetuosi e spesso apparentemente contraddittori. Si assiste a un dialogo che spesso sembra tramutarsi in monologo, mentre i due protagonisti del racconto paiono cercare – l’uno rispetto all’altro – un punto di incontro, di comprensione.
Si sa però che l’arte è spesso uno scavo in solitudine, e colpisce nel finale la riflessione della protagonista femminile: “Capita che più di una vita si viva in una sola esistenza e lei giaceva chiedendosi se fosse pronta a una morte per una rinascita…” Una prova interessante, da leggere e rileggere con attenzione.
Roberto Mosca