La raccolta Calendimaggio, ormai giunta alla sua 24esima edizione, ci ricorda che la poesia è viva e capace di pervicace resistenza. La poesia può essere efficace strumento, per ragazzi e ragazze, per esprimere emozioni, sentimenti, paure, pensieri e riflessioni. E forse mai come in questo momento storico è fondamentale avere quanti più strumenti possibili per coltivare il dialogo, con noi stessi e con gli altri. L’invito ai tutti coloro che si accingono a leggere queste poesie è quindi quello di immergersi nel mondo così come tratteggiato dai ragazzi: con tutte le sue bellezze e asperità.
Michela Palestra, Sindaca di Arese Denise Scupola Assessora alla cultura, parità e pari opportunità, politiche giovanili, legalità, diritti
Alice Serrao - Poetessa, laureata in Filologia, Docente di lingua Italiana e Latina presso il Liceo Classico Clemente Rebora di Rho, ha fatto parte del gruppo Culturale “La Spera” e coordina un gruppo di giovani poeti “Altre Rime”.
Maria Grazia Cislaghi - Già Dirigente della Biblioteca Comunale di Arese, collaboratrice di numerose attività culturali, tra cui la presentazione di libri.
Ombretta Degli Incerti - Già Preside del Liceo Classico Clemente Rebora e Presidente del Distretto scolastico.
Adriano Molteni - Scrittore e poeta premiato in Italia e all’estero per le sue opere, membro di giuria di premi nazionali, ha ideato e realizzato in team il Palio della Città di Rho nel 1996.
Mattia Pedota - Docente universitario di Economia Industriale al Politecnico di Milano e alla MIP Business School e consulente freelance. I suoi articoli, conseguenti le attività di ricerca scientifica, sono stati pubblicati su riviste scientifiche internazionali.
Piero Airaghi - Diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Brera, organizzatore e animatore di iniziative culturali, è fondatore del Premio Nazionale di Pittura Il Pomero, ed è stato insignito del premio “Ambrogino d’oro” dal Comune di Milano.
Roberto Mosca - Autore di poesie e prose, collabora con centri di lettura, scuole ed associazioni per la promozione di eventi culturali.
Ti sei dimenticato il mio viso
Rammento il tuo modo di guardarmi
Mi sono scordata la tenerezza del profumo di erba appena tagliata
L’aspro nel gas dei pullman che mi sfrecciavano accanto
Il dolce contrasto dei camini con l’azzurro
Il bagliore dei fari la sera
L’armonia nei campi interminabili
Il sole scottante la mattina.
Dove sei te, mio adorato?
Dov’è la mia vita, che cerco inutilmente e non trovo?
Dov’è l’attenzione che aveva la realtà nel sorprendermi
ogni momento sempre di più?
Dove sono io?
Come un vuoto che mi mangia, come una presenza che non c’è,
come un’ostinata ricerca vana.
E cosa c’è dentro di me, se non un indescrivibile squilibrio?
Sofia Angelini
Scuola Media Paolo VI - Rho - Classe 3ª
Il componimento tratteggia in maniera sorprendentemente matura il ricordo di un amore. Noto l’alternanza di versi velatamente contrapposti (“ti sei dimenticato”/“rammento”/“mi sono scordata”), l’uso sapiente di immagini al contempo familiari ed evocative (“l’aspro nel gas dei pullman”), il coinvolgimento multisensoriale (“profumo di erba appena tagliata”/“dolce contrasto dei camini con l’azzurro”), la personificazione totalizzante dell’astratto (“l’attenzione che aveva la realtà”). Mi colpisce vedere una ragazza così giovane padroneggiare tutto ciò con tale naturalezza. Non esagero nel dire che questa poesia spiccherebbe ai miei occhi anche in un concorso senza limiti d’età. Siamo di fronte ad un talento raro, che spero trovi espressione e soprattutto comprensione.
Mattia Pedota
Restare fermi, senza direzione,
nessuna luce, nessun arcobaleno,
senza respiro, senza speranza,
nessun racconto
di un “vissero felici e contenti”.
Non mi muovo. Ossa spaventate,
notti oscure.
Chi sono?
Provo a cercare la libertà.
Mi sollevo e cado.
Mi sollevo.
Sogno una vita di libertà,
provo a volare, ma ho paura.
Poi un giorno lo senti
il vento soffiare,
il tuo cuore battere,
le tue ali volare.
Rinasco.
La mia anima è libera,
il mio spirito è libero.
Vado a casa, dalla mia famiglia,
insieme attraverseremo i giudizi della terra.
Se piangerò, da voi correrò.
La mia felicità è imbattibile
e per la mia vita
la mia casa siete voi.
Denise Zimmerhofer
I.C. De André – Media F. Bonecchi – Rho - Classe 1ª
Questa poesia colpisce per i versi, brevi e frammentari, attraverso i quali la voce del poeta si snoda. Un verso in particolare risulta particolarmente felice ed efficace, nuovo nell’accostamento delle parole: “Ossa spaventate”. La poesia racconta, infatti, lo spavento che lascia “senza respiro” e che pietrifica. Il poeta, inizialmente, non ha strumenti per orientarsi, “senza direzione / nessuna luce” e pertanto resta fermo. Si interroga “chi sono io?” è la domanda urgente di quando si cresce. E la scoperta della propria identità non può che procedere per tentativi: “Cado./Mi sollevo”. Alla fine, il poeta sente in viso il vento della rinascita, sente la potenza della libertà e il “cuore battere”. Il mistero dell’essere vivi stupisce più forte da adolescenti. Ora sa muoversi: ora chi guardare per muoversi: la famiglia come punto di riferimento prezioso.
Alice Serrao
Pioggia che cade dagli occhi
Nelle serate sempre più corte.
Orizzonti chiusi,
Come le serrande dei negozi.
Sorrisi amari e azzurri
dietro bocche chiuse dal cotone.
Amici lontani filtrati da uno schermo,
E compagni di classe
Di aule ormai remote
Speranze iniettate nelle vene
E camion che si allontanano
Con chi la speranza non ce l’ha più.
Martina Carugati
Scuola SG San Giuseppe - Arese - Classe 1ª
In questa poesia, chi scrive si fa interprete e portavoce del proprio tempo. Il ruolo del poeta, infatti, è proprio questo: dare una testimonianza della verità che ha potuto scorgere con i propri occhi. E davanti agli occhi dell’autore ci sono “orizzonti chiusi / come le serrande dei negozi” e “bocche chiuse dal cotone” e “camion che si allontanano”. Il poeta usa similitudini e metafore, richiama situazioni note al lettore attraverso una efficace scelta delle parole. Parole che lasciano trapelare la nostalgia e la malinconia, soprattutto quella di trovarsi lontani dagli amici e “filtrati da uno schermo”, ma che non escludono comunque quelle “speranze iniettate nelle vene”.
Alice Serrao
Il grigio dell’atmosfera
Il freddo glaciale
Rispecchiano la mia anima triste
Gli alberi spogli e secchi
Sembrano senza vita
Come il mio cuore
Rinchiuso nella gabbia della pandemia
La paura mi invade
Come il ghiaccio, occupa tutti gli anfratti
Questa sofferenza sembra infinita
Tornerà la primavera?
Agnese De Caprio
Scuola SG San Giuseppe - Arese - Classe 1ª
La pandemia è di colore grigio, spoglia e rinsecchisce gli alberi e le cose, facendole apparire senza vita, rinchiude le anime come in una gabbia, è gelida come un inverno che penetra in tutti gli animi. Quando finirà? Sappiamo quando arriverà la primavera, nessuno sa quando questa fredda stagione ci lascerà. Soprattutto i giovani stanno soffrendo della mancanza di comunicazione prodotta da virus: in famiglia, nella scuola, nella vita, La sofferenza sembra non finire mai ma, nonostante questa sofferenza sembri infinita ed interminabile, una domanda chiude la riflessione della giovane poetessa: tornerà la primavera? E tale conclusione fa provare un leggero ottimismo nonostante il quadro disperato!
Ombretta Degli Incerti
Che silenzio,
e quanto lacera
quando entra dentro
e spezza le ossa.
E con che silenzio
arrivava la nostra pallottola
quella con sopra scritto il nostro nome,
quella che ci entrava nel cuore
senza lo scrupolo
di lasciarci fare un altro respiro,
soltanto un altro.
E troppo silenzio rimase
su quel camposanto
su cui il fuoco infierì
come fossimo tutti rami secchi
buttati nel camino,
di quelli tanto piccoli che non scaldan l’aria
ma lasciano solo la puzza.
“I generali se ne andranno, amico mio,
e di noi abbandoneranno il ricordo
ripetendo il borbottio:
-Siamo vivi, siamo vivi.-
e saranno vivi. Ah! Con quanto silenzio se n’andranno!”
Nicolò Christian Terrana
Liceo Classico Statale C. Rebora - Rho - Classe 2ª
Una pallottola su cui è scritto il nostro nome ha stroncato il respiro ed ha riempito il camposanto di un silenzio senza fine che entra nell’animo e spacca le ossa, interrotto solo da un crepitio di rami secchi che, bruciando, impregnano l’aria di cattivo odore. Chi invece l’ha spedita, quella pallottola, sopravviverà, ma lasciando una mancanza di voci ancora più profonda. L’autore di questo componimento vive ed esprime profondamente un mondo in cui al rumore della guerra che colpisce senza lasciare respiro corrisponde la sensazione di vuoto che avvolge tutto e tutti, senza speranza, anche chi era convinto che uccidere e dar fuoco alle tombe servisse a rompere il silenzio.
Ombretta Degli Incerti
Ero inerte
e non sapevo che fare.
Mi tormentavo affinché tutto finisse.
Niente.
Quel ricordo riaffiorava alla mente
come una freccia
che trafigge un cuore senza battito, senza segno di vitalità.
Ormai organo
e non più motore di vita
e fiume di emozioni.
Allora chiudo gli occhi, senza speranze,
ma non riesco a scacciarlo dalla mia mente.
Niente.
Anch’essa, la mente,
mi ha abbandonato:
ho trascorso tutta la vita, la mia travagliata vita
a dimenticare quell’indelebile ricordo.
Niente.
Ho innalzato un muro
tra me e il mondo, tra me e il ricordo
di un attimo fuggente…
…che ha segnato,
come il sangue fa per le ferite,
tutta la vita, la mia vita…
…ma io lo sento, lo vivo ancora,
sopravvive, nonostante gli ostacoli,
allora chiudo gli occhi
e non ci penso più.
Mirko Fattor
Liceo Classico Statale C. Rebora - Rho - Classe 2ª
Magritte, il pittore che “tradusse in immagini l’inusuale distanza che separa la realtà dalla rappresentazione”, attrae, con la sua suggestione poetica, la penna del nostro poeta. Il ricordo non scompare, nonostante l’affannarsi per cacciarlo. Non scompare né dal cuore, che per il poeta non è più “motore di vita e fiume di emozioni” né dalla mente. Il ricordo rimane, perché è conservato nella memoria e questa fa parte della vita. La memoria quindi è vita. Scomparirà solo con noi.
Adriano Molteni
Dovrei lasciare andare ogni cosa che ti tiene ancorato alla mia pelle,
dando spazio a quei pensieri che,
fino a poco tempo fa,
s’illudevano di raggiungerti.
Ti avrei teso la mano,
quella notte così silente si mutava per poi parlarti,
per guardarti in quegli occhi lontani,
cercando disperatamente una vicinanza,
che forse,
non avrebbe mai trovato.
La freddezza serrata dietro ogni tuo gesto,
lame affilate,
artigli in fiamme,
che si divertivano ad affondare nella mia carne,
fino a toccare le ossa della mia gabbia toracica,
facendo scorrere come un rivolo
il sangue più corrotto,
ed i rimorsi,
di tutto ciò che sarebbe potuto essere,
ma non è.
Siedo ancora,
aspettando che il cielo si oscuri
e che la luce sparisca nell’incertezza delle tende,
dietro quel sipario che
cela così egoisticamente
il freddo della notte,
dove tu vedevi solo miseria,
cullandomi amaramente nel tuo dolce addio.
Alessandra Marukha
Liceo Statale E. Majorana – Rho Classe 2ª
Una delle caratteristiche innalzanti della poesia è la presenza del ritmo, ovvero la musicalità che la rende unica e distinta rispetto ad altre forme di comunicazione scritta. È il quid che porta – anche nell’impiego del verso libero – “luminosità” alla poesia stessa. Questo è quanto si può cogliere immediatamente dal componimento, prima ancora di tornare sul testo poetico e affrontarne il significato. È una storia di vita vissuta, un periodo esistenziale cui forse il titolo dell’opera amplifica la reale valenza del vissuto medesimo. Ma la “Perdizione” è la personale costrizione di quel momento, di quei giorni che alla fine hanno determinato – paradossalmente – la creazione poetica. Chi scrive racconta la propria delusione dopo essersi abbandonato all’altro, che pur ancora resta presente, “ancorato alla mia pelle”. Una situazione affettiva che ha lasciato tracce forse indelebili o più auspicabilmente utili, pur nel dolore, alla costruzione della propria e giovane personalità. E alla fine si comprende, pur se non ancora avvenuto, il prossimo riscatto, l’uscita dalla sofferenza, per proseguire rimarginando le proprie ferite: “cullandomi amaramente nel tuo dolce addio”. Un addio dolce solo per merito di chi racconta, che dunque pare aver metabolizzato al meglio l’accaduto. Una Poesia da leggere e rileggere per gustarne appieno la valenza, pur se con qualche piccola asprezza stilistica che sparirà con la pratica e l’esercizio, che raccomandiamo vivamente all’autore.
Roberto Mosca
Vecchia chitarra abbandonata.
Pioggia incessante sulle ruvide corde
Come il mare tempestoso sugli scogli
Volteggia una foglia, sordo silenzio
Ondeggiano le spighe dorate
La cassa armonica, vuota, sospira
Colorata, una farfalla si posa:
Ed è subito musica!
Chiara Alfano Liceo
B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 1ª
La tristezza che proviamo ascoltando una musica, al vedere la pioggia e la nebbia allenta il nostro vivere, ma poi ripeschiamo nella nostra mente le “cose belle”, ritrovando più sogni che rimpianti. I nostri sentimenti vengono vissuti e memorizzati in base al nostro stato d’animo dando vita ad esperienze diverse di nostalgia. Ci basta un brano musicale per riattivare i nostri ricordi “o una farfalla che si posa su la chitarra abbandonata” ed è subito musica.
Piero Airaghi
Spegni il cero; posa il primo piede all’ombra della luna,
Troppe ore all’alba, la pelle sulla sabbia, il silenzio si denuda.
Il rollio dell’universo, la chiglia contro il mondo,
una conchiglia sul fondale urla la sua storia.
Dicono che la notte è dei poeti
perché il buio apre la mente e rilassa gli occhi,
La luna implora attenzioni dai mortali
La luce del sole gioisce solo nei suoi riflessi chiari;
Tratti leggeri sulle onde bianco della notte
I pastelli danzano nelle mani attonite, l’artista inerme,
Il punto di fuga delle anime fisso nel firmamento.
Detto una poesia all’inchiostro, un urlo frenetico,
La brucio la sublimo, al mare la dedico;
Salsedine sugli spartiti,
L’astro attende i suoi aguzzini.
La linea di confine si tinge di petali di rosa,
Immergo l’anima nell’acqua e mi godo l’aurora.
Leonardo Caenazzo
Liceo Artistico L. Fontana – Arese - Classe 3ª
Una successione di metafore felici danno un timbro di bellezza alla notte descritta. Il poeta diventa un tutt’uno con ciò che i sensi gli descrivono. La natura e gli oggetti danzano all’unisono e il poeta sente la necessità di una purificazione con l’acqua del mare prima di godere della vita coi colori che gli sta portando l’aurora.
Adriano Molteni
Sogno,
gli occhi spalancati, assenti.
Mi immergo,
nei più profondi sentimenti.
La mente sgombra, la quiete,
come una boa che galleggia
in un mare di onde liete.
Immagini fugaci, pensieri,
si inseguono qua e là
dove niente ha più freni.
Ormai io vivo qui, inconsistente,
in un posto senza luogo,
in un rifugio dal presente.
Il tempo scorre lento,
ho perso ogni orientamento
come illusioni scosse al vento.
Mi risveglio senza fiato, passiva,
ogni istante mi ha cullata
come onde sulla riva.
Non so più dove mi trovo,
forse prima stavo meglio,
nel mio animo nascosta,
senza alcun risentimento.
Giulia Luzzini
Liceo B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 4ª
L’autrice della poesia esprime con chiarezza la contradditorietà del suo stato d'animo, confuso tra il sogno e la riflessione poetica, tra la quiete e la sensazione di vedere immagini e pensieri che la fanno vivere in un posto inconsistente, in cui il tempo scorre lento e le fa perdere ogni orientamento. Si risveglia e non sa più dove si trova e viene avvolta dal dubbio di stare meglio quando se ne stava in silenzio senza alcuna sicurezza né risentimento. La poesia è breve ma riesce ad esprimere la pluralità di sensazioni e la contradditorietà degli stati d'animo che la poetessa riesce a controllare senza provare alcun risentimento per aver smarrito ogni illusione.
Ombretta Degli Incerti
Cammino su specchi che riflettono il vuoto,
spezzati da crepe che inseguono il passo
e intorno volti,
dipinti da sfumature sfuggenti
che offuscano il vero colore delle anime e accecano la mia.
In bilico, evanescente.
Un sassolino tra granelli di sabbia,
che scorrono indifferenti sul suo grigiastro attonito
e passando svaniscono,
come l’infinità di possibilitá,
non divenute scelte,
che si allontanano trasportate da un vento che mi spoglia,
portando con se un manto di illusioni e lasciandomi nuda;
nuda e frastornata di fronte a un mondo chiassoso,
che urla indifferenza e nasconde il nulla dietro a maestose parole colme
di superbia;
e se mi fermo a pensare
il sole non scalda
e il mare un divario
e il cielo nella sua immensità,
il soffitto di una fredda e buia casa,
i muri montagne invalicabili e opprimenti;
La vastità imperturbabile mi è stretta.
Scorgo storie nelle luci delle finestre della Grande Casa,
ma vedo offuscata la mia,
da una nube grigiastra.
In bilico, evanescente.
Giorgia Di Pasquale
Liceo B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 5ª
L’antica sentenza di Socrate “Conosci te stesso” come modalità per poter agire e vivere meglio. Abbiamo bisogno degli altri nell’arco del nostro vivere, l’unione delle nostre fragilità con altri promuove in noi la forza e il coraggio del vivere. “La vastità imperturbabile mi è stretta” da “una nube grigiastra”. E’ l’insicurezza, il timore di sbagliare e la paura sono condizioni psicologiche che fanno parte del nostro quotidiano ed hanno lo scopo di farci prevedere un pericolo. E’ la conoscenza che caratterizza, attraverso i sentimenti, l’essere umano, che gli permette di stare nel mondo, lottando per realizzare ciò che si chiama umanesimo, per poter sciogliere “quella nube grigiastra”.
Piero Airaghi
Sogno un vestito rosa.
In me suona ancora quella bambina,
quella che sogna i principi,
sogna i fiori,
le stelle,
amori.
Uno strascico
così lungo da sentirmi intrappolata,
ma così leggero da sembrare piume a mezz’aria.
Sogno i capelli al vento.
Quel profumo di ciliegio.
Sogno un vestito bianco.
Il “per sempre felici e contenti”,
valzer, anelli e festeggiamenti.
Sogno la promessa,
quella che davanti a Dio farei
senza sentirmi oppressa.
Sogno il vestito azzurro,
il soave bacio blu
e la sensazione di scappare.
Sogno, sognavo, sognerò.
Sono, sarei, sarò.
Nikely Sofia Villanueva Huaman
Liceo Artistico L. Fontana – Arese - Classe 3ª
Questa poesia mi ha colpito per la sua originalità, la chiarezza del messaggio e la forza con cui è veicolato, a partire dal titolo. La gestione dei colori è creativa, e la loro associazione ad ogni sfumatura del sogno romantico risulta efficace. Sul piano intellettuale, la contrapposizione fra la leggerezza e l’oppressione della promessa non è banale, ed è ben anticipata, metaforicamente, dai tre versi centrali (“uno strascico così lungo da sentirmi intrappolata, ma così leggero da sembrare piume a mezz’aria”), che creano un ponte fra la prigione, il sogno e il ricordo. In un mondo che ci vuole adulti, alienati e disillusi, sognare un vestito rosa richiede coraggio ancor prima che sensibilità poetica, e il coraggio è forse ciò di cui più c’è bisogno, anche in poesia.
Mattia Pedota
Un vecchio monastero. La pioggia leggera. Un lupo ulula. Scende dal monte la Guida, pronta a condurre i due viaggiatori alla Caverna. Attendono nel locale in cui è stato indicato loro di recarsi, seduti alle estremità opposte del bancone, senza consumare nulla. Lo sguardo è perso, il cuore sgomento.
- Seguitemi. Non voglio conoscere i vostri nomi, seguitemi soltanto. Tu devi essere il Poeta, non è vero? E tu lo Scienziato. Parleremo presto, ora seguitemi.
Salgono il Monte. Sul terreno impervio giace l’oscurità della notte. Si odono i gufi.
- Dovremo fare attenzione. Ho condotto molti alla Caverna, conosco la strada, eppure essa rimane imprevedibile, faticosa, spesso incomprensibile. Non dovete perdervi d’animo. Ditemi, perché volete raggiungere la Caverna? Cosa cercate?
- Nulla. Non ti riguarda. Tu guidaci soltanto.
La notte è finita. Sui ciliegi sorge l’alba profumata.
- Arriva presto il giorno qui, non è vero? Domanda pungente il Poeta.
- Sì, pare di sì.
È un uomo di poche parole, lo Scienziato. Ha speso anni a servire l’uomo, sua alleata è sempre stata la ragione. Ma ora, come può spiegarsi ciò che accade sulla terra? Come essa, la sua mente è piombata nell’oscurità.
Fra i prati verdi gorgoglia il ruscello. Il vento accarezza la roccia. - Eccoci al dirupo. Non so cosa ci aspetta, ma non importa: se vi fiderete, riuscirete a raggiungere la Caverna. E lì, otterrete ogni cosa. Non dovrete far altro che chiedere.
- È proprio vero quello che dicono? Qualsiasi desiderio?
- Sì, scienziato, sì! Che sia del corpo, dello spirito o dell’intelletto.
- Ma come può esistere una tale forza? Una risposta a tutto?
- Questo dovrebbe dircelo lei, con la sua scienza!
- No, io non mi occupo di spiegare il perché. Io devo capire come il mondo funziona, e muoverlo al nostro bisogno.
- E per cosa? Crede che la scienza possa darci l’immortalità? Essa distrae l’uomo dalla sua ricerca, dalla sua contemplazione del mondo.
- Se sa già tutto, perché è qui? Vada, salvi il mondo con la sua bellezza.
- Salvare il mondo! Non è mio compito e non è possibile!
- Non litigate! Non escludetevi l’un l’altro! Ricordate che quello che voi osservate non è la vera natura, ma la natura soggetta al vostro metodo d’indagine. Ascoltate dunque l’altra parte! Osservate l’altra parte!
È un uomo inquieto, il Poeta. C’è stato un tempo in cui la sua arte era ciò che di più prossimo alla Creazione l’uomo potesse plasmare, ma ora nessuno crede più in lui, reietto dalla società caduta nelle tenebre.
Una farfalla volteggia nei boschi silenziosi. Cade la rugiada e su ogni spina del pruno è appesa una gocciolina.
Ecco i tre guerrieri superare l’ostacolo. La Guida tende la mano, ma i viaggiatori la ignorano. Bastiamo a noi stessi, pensano.
- È vero, io sono qui per conoscere la Caverna. Anche se non comprendiamo quello che sta accadendo, dobbiamo fare la nostra parte. Ma lei, Poeta, cosa cerca? Lei vive solo, sceglie liberamente la sua strada, va dove la conduce il suo ingegno, è giudice supremo suo e del mondo. Ma è ostaggio dell’eternità, prigioniero del tempo. Perché non vive per il mondo, giudice esigente?
- Se non rispetto la mia terra interiore, come posso rispettare la terra su cui cammino? Chi è freddo dimentica presto e non ritorna. Io ammiro le valli e i ruscelli e le montagne maestose e debbo lasciare un segno, perché quando anche l’ultimo di noi svanirà dalla terra, il nostro spirito tornerà ai boschi e alle spiagge. L’arte aiuta l’uomo a riconciliarsi con la propria mortalità.
- Camminando sulla terra non lasciamo semplicemente un segno. Soltanto chi ha voluto salvarla ha servito l’uomo! Dobbiamo lasciare in eredità la nostra vita, non il nostro passaggio!
- Vi sbagliate entrambi. Non dovete limitarvi a contemplare il mondo, né a indagarlo per servirvene. Dovete amarlo come un neonato ama il cuore della madre. Non temete che l’amore non sia sufficiente, non ignorate i sentimenti che vi muoiono dentro ogni giorno, le parti di voi stessi che negate.
Un vecchio stagno. Una rana è saltata nell’acqua. La natura è in pace con sé stessa.
- Amare… ciò che tu chiami amore non è energia spirituale, ma solo attrito tra l’animo e il mondo esterno. Se esiste, l’amore non appartiene all’uomo.
- L’amore è il sangue dell’universo, senza di esso l’uomo è perduto, la sua esistenza vana. Se salite il Monte allo sbando neppure la Caverna potrà aiutarvi, perché il vostro viaggio non sarà stato autentico.
- Guida, io non pretendo di conoscere il Monte come te. Ma sono d’accordo con il Poeta: non è l’amore che cerchiamo, non è per questo che siamo qui.
- E cosa cercate dunque? Non avete voluto dirmelo, ma l’ho capito. Tu vuoi appropriarti del segreto della Caverna, della luce, e donarla agli uomini: otterrai premi e ricompense, ma non ti basterà. La scienza non salva l’uomo, l’aquila divorerà il tuo fegato. E tu, Poeta, cerchi l’ispirazione, insegui l’estasi che il mondo non sa più darti. Ma neppure quella sarà sufficiente. Ricordate, la Caverna aiuta chi non ha più speranza, non i giusti o gli ingiusti, ma gli infelici. Per questo dovete avere fede, altrimenti il vostro cammino sarà stato inutile!
Una lepre torna alla sua buca. Il picchio scandisce la melodia della foresta. Sono giunti alla Caverna, il suono di una cascata allegra li accompagna.
- Cos’è quella?! Una bomba?!
- Se la Caverna non può aiutare neppure chi vuol fare del bene, allora è meglio distruggerla. Immaginate cosa accadrebbe se tu conducessi qui uomini malvagi, quali desideri sarebbero esauditi!
- No, non farlo! Il timore del male non deve sopraffare la tua bontà! Ti prego, non ho più nulla sulla terra, guidare le anime tristi è tutto ciò che mi resta! La distruzione avvelena lo spirito, non lo rasserena.
- Fermo Scienziato, la Guida ha ragione. Sì, ha ragione: voler servire l’umanità non ti dà il diritto di scegliere per essa. Anche se vediamo con occhi diversi, non possiamo togliere alla Guida ciò che le appartiene. Non entrerò nella Caverna, non sono pronto. La mia non era ricerca della bellezza, ma vuoto interiore, miserabile vanità. Ma il mio sconforto è passato, e il mio cuore di nuovo arde perché sa di poter amare.
- È vero… sono stato egoista, ho tradito il mio scopo. Conoscere non basta. Torniamo a casa. Se non salveremo il mondo, almeno potremo aiutarlo.
È sera ormai. Tra i fiori si spengono i colori degli alberi. Risale al suo eremo la Guida.
- Da dove mi viene tanta improvvisa indolenza? Questa mattina ero pieno di forza… Perché l’uomo deve essere debole?
Siedono nel locale i due viaggiatori, vicini. Sono sereni. Oltre la necessità, dove regna il puro empirismo, inaspettatamente, di tanto in tanto avvengono i miracoli, la scienza incontra l’arte: ecco la fisica, incantesimo della realtà.
- Secondo lei, Dio esiste, oppure no?
- Penso di sì.
Giuseppe Aita
Liceo B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 5ª
Nelle sue molteplici declinazioni, la dicotomia fra Apollo e Dioniso è forse una delle più banalizzate ed abusate, per la facilità con cui si può ridurre la tensione illuministica a vuoto raziocinio e quella romantica a convenzionale sentimentalismo. Al contrario, qui non si può non apprezzare la pulizia e precisione con cui si delineano le peculiarità epistemologiche ed etiche di scienza e poesia, integrate in un racconto ben scritto e strutturato, seppure appesantito da qualche topos di troppo. Vedo inoltre numerosi spunti potenziali discendere dalla terza via, quella dell’amore incondizionato, che avrebbe forse beneficiato di un’esplorazione più vivida e articolata. Il racconto denota comunque fantasia, saggezza e finezza intellettuale, abbinate ad una buona capacità di scrittura. La vittoria è sicuramente meritata.
Mattia Pedota
Ho sognato un posto lontano, caldo, silenzioso, uno di quei posti che ti fa venire voglia di piangere, di singhiozzare. Ho sognato una terra senza nome, senza proprietari, una terra senza uomini, un luogo nel quale non mi sentivo solo, insignificante, vuoto. Ricordo di essermi sentito libero, lì mentre non distinguevo dove finisse il cielo e dove iniziassi io. Una voce metallica mi ha risvegliato da quella illusione, strappandomi da quel sogno caldo, sicuro. “Avviso importante. Si prevede che durante la mattinata di oggi, 27 gennaio 2092, un plotone armato di bombe chimiche sorvolerà le seguenti zone: la sette, la nove e la dodici. Raccomandiamo attenzione ai cittadini in esse residenti, tra gli abitanti di tali zone, tutti coloro che risultano sprovvisti di maschera antigas sono pregati di recarsi presso i rifugi sotterranei dei propri settori. Vi auguriamo una buona giornata”. Questo il messaggio che recitava la voce assente e impassibile alla radio, si trattava di una cantilena quotidiana che ci si trovava a sentire quasi tutti i giorni da ben sette anni, e che, sebbene prima suscitasse agitazione e ansia, adesso risuonava a vuoto, come svuotata del proprio significato, effimera. Non che importasse. Le camere sotterranee non esistevano, comunque, alcuni le avevano cercate per un paio di anni, ma poi tutti si erano arresi all’idea che fossero solo un’invenzione atta, probabilmente, a far sentire meno colpevoli i soldati e gli aeronauti, a togliere dalla coscienza dei vivi il peso di non aver dato via di scampo a persone innocenti. Semplicemente si trattava di una consolazione data ai carnefici, simbolica e penosa, come chi seppellisce un nemico di guerra che ha ucciso per non vedere nel suo volto il risultato del proprio egoismo. Il mondo ha distolto lo sguardo da noi, ponendo sui nostri morti un telo bianco, senza notare come esso ormai si sia tinto di un color cremisi. I leader delle principali potenze mondiali quali: Russia, Cina, Giappone, Corea e America, giocano a scacchi con armi chimiche e bombe atomiche e noi settori, tasselli di questa scacchiera, non siamo altro che terreno libero da occupare.
La radio smette di gracchiare e io apro gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’immagine, tanto diversa dal mio sogno, che ho davanti.
Mi trovo in uno sgabuzzino, credo di essere in una zona sicura oggi, settore otto, limitrofo a due che verranno puntati questa mattina, ma nonostante io non sia nelle zone pericolose, corro comunque un rischio notevole e ne sono ben conscio. Non mi ricordo come ci sono arrivato in realtà in questa stanza angusta, forse non c’ho semplicemente prestato attenzione ieri. Quando si sopravvive si tende a dimenticare cose del genere, oggi si è vivi e non morti, tutto qui. È buio, ma filtra un raggio di luce lieve, quasi timido, da sotto la porta. Mi alzo, mi fa male la testa e ho fame, una fame incessante che mi divora lo stomaco e mi fa venir voglia di strapparmelo dal torace. Poggio la mano sul pomello della porta e solo ora mi rendo conto di quanto io sia dimagrito, la mia sembra la mano di un vecchio, di un malato: gialla, raggrinzita, invecchiata di trent’anni dalle radiazioni della zona. Clack! Il suono meccanico, tipico delle serrature vecchio stile, scatta e risuona nella stanza, riportandomi alla realtà, la porta si apre.
Luce, per un momento vedo solo bianco. Un bianco puro che per qualche secondo mi fa dimenticare il luogo in cui sono, la realtà in cui vivo.
Quando i miei occhi si abituano riesco a mettere a fuoco le immagini che ho davanti: una scala sulla destra, vetrine da ambedue i lati, forzate o rotte, in un angolo c’è il cadavere di un bambino, inizia a puzzare...Dio sarà lì da giorni. Cosa vedo davanti a me? Vuoto. Un enorme e immenso pavimento vuoto, vetrine vuote, gente vuota, che striscia i piedi in cerca di qualcosa che nessuno abbia ancora arraffato, che stringe gelosamente una maschera anti gas. “Cristo, la maschera antigas!”
Penso e mi giro di scatto verso lo stanzino, non c’è, questo non è affatto un bene. Per un attimo il senso di fame scompare, sostituito da una forte stretta allo stomaco: ho paura. Credo che non avere una maschera antigas in una situazione del genere equivalga a stare proprio di fianco alla morte e a salutarla con la mano.
“Se suonasse l’allarme?” Penso “No, non suonerà.” Mi rispondo cercando di rassicurarmi, “Ma okay, tu metti che dovesse suonare e che proprio ora cadesse una bomba chimica qui sopra. Immagina se quella campanella rossa si accendesse, come ha fatto mille volte e tu non avessi quella dannata maschera?”
“Quella maschera mi serve, io devo vivere, merito di vivere.”
Quest’ultimo pensiero viene interrotto bruscamente da un dolore acuto: onde ad alta frequenza mi perforano i timpani, gli altoparlanti iniziano a suonare. Luci rosse a intermittenza che provengono da tutto l’edificio.
Impossibile. Surreale. Un incubo. Il pavimento, prima vuoto, diventa il centro di un mercato. Gente che piange e che urla disperata come se si fosse resa conto solo ora della terribile verità: che il non avere una maschera antigas equivale alla morte. Persone che, invece, gelosamente se la mettono addosso e quasi si nascondono il viso, avidi o forse pieni di vergogna per la fortuna che il destino gli ha dato. Io inizio a correre, perquisisco tutte le stanze che trovo ma vedo solo gente disperata o volti coperti da maschere, neri, metallici, rannicchiati ad attendere che tutto passi.
Attraverso in diagonale la stanza, gli altoparlanti posti sopra alle luci a intermittenza iniziano a scandire un conto alla rovescia. Lo sento entrarmi in testa, “10,9,8...” vedo una porta dall’altra parte della sala, forse li ci sarà qualcosa, “7,6,5..” è chiusa, mi volto e mi guardò intorno come un animale in trappola e la vedo: una madre dall’altra parte della sala, tiene per mano una bambina che a sua volta stringe un orsacchiotto blu. Poi finalmente mi rendo conto del perché i suoi occhi brillino tanto: c’è una maschera proprio lì al centro della sala, il posto dove sono passato più volte, da dove sia arrivata mi è ignoto, come io non l’abbia vista egualmente. I miei piedi si staccano dal suolo “4,3...” quelli della donna imitano i miei, corre non per lei ma per la sua bambina, avrà quattro anni al massimo. “E io per chi corro?” Mi chiedo, mentre sento le gambe cedere e la maschera sempre più vicina, “Corro per tenere viva la memoria delle mie figlie.” Mi dico, la mente pervasa dall’immagine di loro che giocano in un campo di margherite, si tengono per mano, lo stesso campo nel quale le ho seppellite, lo stesso campo sul quale sono morte. Accelero, mi piego e riesco ad afferrarne un lembo con la mano, alzo lo sguardo e incrocio gli occhi di lei. Ha occhi stanchi, di un azzurro pallido, vuoto, occhi di una donna che ha fame, ma soprattutto occhi disperati, per una figlia che non ha ancora potuto vivere una vita come si deve. “2..” Sento la plastica circondarmi il viso, l’aria passare nei polmoni, più pulita. La guardo, la guardo ancora perché non so che altro fare e nel riflesso degli occhi di lei vedo la bomba cadere lenta, come la lacrima che le sta rigando il viso. Vorrei dirle che mi dispiace, ma sto zitto. I suoi occhi non sono colmi d’odio, sono sereni, forse la invidio, forse vorrei avere anch’io la serenità che accompagna i morti, forse desidero davvero, per una volta, la consapevolezza che questo dolore rimarrà solo nel cuore di coloro che rimangono e non in quello di coloro che se ne vanno. La guardo abbracciare la figlia, “1...” la guardo morire. “Ora è tutto finito.”, le sento dire “Andrà tutto bene”. La vedo sorridere, ha un sorriso triste e allo stesso tempo straziante, poi niente. Alle due si spegne piano il respiro, si accasciano a terra, come prese da un sonno improvviso, ancora abbracciate. Io sono lì, spettatore e artefice di queste due morti. Una domanda senza risposta mi dilania il cranio: “E io, per chi corro?”
Esquinazi Francesca
Liceo B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 4ª
In un racconto breve è ancor più importante gestire con efficacia l’introduzione, lo sviluppo della trama e le conclusioni. Se poi parliamo di genere fantasy o distopico, non è davvero semplice condensare tutti gli elementi, riuscendo a trovare la formula vincente. Questo racconto raggiunge l’obiettivo, e la naturale fluidità della scrittura rende ben piacevole e coinvolgente la trama, nella quale ci si immerge senza alcuno sforzo. Siamo dunque nel futuro: alla fine del secolo attuale, e il protagonista sta facendo un sogno piacevole, di pacifico abbandono in un ambiente che non è quel che ritrova al brusco risveglio. Il mondo di quegli anni è infatti sprofondato nella guerra pressoché totale; fame, miseria e disperazione avvolgono l’umanità. Il personaggio principale si muove in questo spazio e dovrà assumere una decisione terribile, in pochi attimi, per garantirsi la sopravvivenza, della quale si domanderà infine ed emblematicamente il senso. I sentimenti si mescolano nell’intrico di situazioni, ma restano paradossalmente ben distinti ed offrono numerosi spunti di riflessione. Pur con qualche imperfezione letteraria che si risolverà con il tempo e l’esercizio, il racconto è convincente nella sostanza e uno degli obiettivi raggiunti da chi scrive – direi quello fondamentale – è il saper coinvolgere il lettore con pienezza.
Roberto Mosca
Madre natura pareva pronta a inghiottirci, a riprendersi ciò che le avevamo tolto, a ristabilire la pace deturpata.
La vista mi si annebbiò, sperai fosse il mio turno ma il nostro burattinaio
non pare compassionevole; il mio torpore era interrotto da uno scrivere
frenetico, punteggiato da singhiozzi soffocati sul nascere. L’anima alla
mia destra aveva trovato una matita e scriveva il suo addio su un pacchetto di sigarette inumidito dalle intemperie. Lo preferivo al silenzio. Lo preferivo al silenzio alla mia sinistra, l’istinto di sopravvivenza lo aveva lacerato dal profondo, si era cosparso del sangue dei feriti e si fingeva morto,
si leggeva la follia nei suoi nervi che non cessavano il tremore sulle dita
apparentemente rilassate. Sperava di ingannare la morte ingannando se
stesso e i suoi ultimi minuti.
Il vento s’insinuò nella trincea ricordandomi l’esistenza del mio corpo. Il
tremore scuoteva anche me, sollevai le mani scoprendole di una sfumatura fra il rosso e il violaceo, non ero sicuro se il freddo o il sibilo dei proiettili mi impedivano di percepirle parte del mio corpo, erano emaciate e
incrostate di sangue e fango ma sentivo solo uno strano formicolio.
Non ero sicuro che sarei stato in grado di urlare quando mi avrebbero colpito a tal punto era secca la mia gola; le labbra erano colme di tagli che si
cicatrizzavano col sangue rappreso.
I singhiozzi non cessavano, probabilmente ha famiglia, pensai, un altro
essere senza nome che abbandonerà altre persone senza nome. Non ricordavo nemmeno chi mi aspettasse a casa, ma ero certo potesse continuare
senza di me, avrebbe dovuto farlo. È una partita a scacchi e noi non valiamo più di una pedina di legno. Fu allora che la vidi, nel culmine dei miei
pensieri apparve, scavalcò a piedi nudi il filo spinato e si calò nella buca.
Aveva occhi che scrutavano oltre le mie membra, azzurri più del cielo più
limpido e i capelli neri come una notte senza stelle, danzava rimanendo
immobile nella sua tunica bianca, semplice ma stupenda. Camminava a
piedi nudi, al collo uno smeraldo intrecciato con fiori di campo. Portò due
dita alle labbra e le poggiò sulla mia fronte, le dita tiepide, ma ero più freddo di un cadavere, poteva essere un’impressione, poi si sedette di fronte a
me, sprofondando nel fango. Il vento portò via i suoni e il mondo cessò di
esistere al di fuori dei nostri sguardi. “Portami via con te” bisbigliai, troppo piano perché anima viva potesse udirmi. “Non oggi” rispose accennando un sorriso, “ti prego”. Le parole si gelavano a contatto con l’aria
indugiando sulle labbra tagliate dal freddo. “Oggi la morte ti grazia” “ma
la vita può far più paura” “la vita è imprevedibile, io sono una certezza”
“sei qui perché sono speciale?” “Sei il niente come tutti quanti, magari stai
solo delirando”. Non ero più nel fango ero altrove, nel candore dell’esistenza pura, avrei voluto rannicchiarmi e riposare lì in eterno. “Perché sei
qui allora?” “Molti fiori di campo gioiranno nel mio bouqet prima di sera”
“perché solo io ti vedo?” “Perché pensi di essere l’unico con cui sto parlando, perché vuoi essere unico?” Tacqui per infiniti istanti. “Portami via,
non riesco a preferire la vita a te” “la vita è volubile, invisibile, agisce nell’ombra e si confessa nei tramonti, non percepisci i suoi abbracci di seta.
Io porto la pace, ma l’eterno annoia, l’eternità è un supplizio se morsa da
ricordi inappagati, un’anima vale due dracme, una vita è inestimabile.”
“Questa non è una vita, è un inferno senza la tua bellezza.” “Non c’è fine,
non c’è inferno né paradiso, non c’è karma, le cose non andranno meglio
necessariamente, la vita è una goccia nell’eternità ma può tingere tutto l’oceano.
Prenderò il soldato alla tua destra stasera, non finirà mai la sua poesia,
scriverà in eterno con dita tremolanti singhiozzando i suoi dolori. Quello
alla tua sinistra si lascerà cadere nelle mie braccia, bruceranno già troppe
vite oggi, salvati”. Si alzò lentamente facendo leva sul ginocchio, la veste
intarsiata di fango, storie di uomini e delle loro morti nelle pieghe fra le
gambe esili. Prese per mano i due e si incamminò oltre la trincea, verso il
nemico, molti la seguirono, camminavano chini ma con lo sguardo fisso,
gli occhi vitrei.
Ritornai nella cruda realtà. Pochi metri alla mia sinistra era caduta una granata, non aveva più bisogno di travestimenti, la sorte aveva perfezionato
l’opera dell’uomo con il sangue di quest’ultimo. Il fianco dilaniato dall’esplosione, la cassa toracica colma d’aria senza intermediari, era un miracolo che una scheggia non avesse preso pure me. Provai a ricordare il suo
nome. Non ci riuscii.
Il fischio degli ufficiali giunse dall’altro mondo, offuscò la realtà sovrastando il resto, l’uomo alla mia destra si arrampicò fuori dalla trincea
ancora con le lacrime agli occhi, io non volevo andare, non volevo tornare nel dolore, non volevo contorcermi tra la crudeltà dell’uomo per pochi
centimetri di terra, in quel posto senza nome. Quella terra di nessuno,
figlia della natura e di proprietà solo del tempo. Un superiore mi urlò di
partire all’attacco, se non mi fossi mosso mi avrebbe fatto fucilare. Il sibilo dei colpi accompagnò il mio ingresso in battaglia, non ero nemmeno
certo di avere la baionetta in mano, ma iniziai a correre, come se dall’altra parte mi aspettasse la salvezza e non lo stesso vuoto assordante solo
100 metri avanti. Correvo e correvo con gambe che non sapevo di avere,
ero quasi giunto a metà strada, indenne... Un secondo fischio spense il
mondo, un esplosione e delle immagini che sparivano prima di arrivare
alla retina. La granata divenne tutto, l’unica cosa che percepivo, io non
esistevo più, il piombo e la sua danza estenuante non esistevano più, il
fango, che era ormai parte del mio corpo, non esisteva più, l’uomo coperto di sangue non esisteva più e nemmeno la pace, o forse era quella la
pace, i piatti della bilancia colmi di niente, nessuna interferenza, la odiai
per tutto il tempo che offuscò la mia mente. Poi rimasi lì. Fu notte e fu
giorno e fu nuovamente notte, oppure furono pochi minuti, ma fu l’oscurità; mi risvegliai incosciente del dolore che doveva pervadermi, contemplai la quiete, il buio avvolgeva la vita e interrompeva la battaglia, più era
buio più lo amavo, ed era la fine della luce. Iniziai a muovermi, strisciavo
lento verso la trincea da cui era partita la mia folle corsa. Il mio corpo era
atrofizzato, non intendeva rispondere ai miei comandi. A fatica arrivai
dopo un’interminabile viaggio al filo spinato, ero =sicuro che non sarei
stato in grado di scavalcarlo. Emisi un lamento sommesso chiedendo
aiuto, sempre più forte, trovando forze che non pensavo mi fossero rimaste. In una notte normale difficilmente mi avrebbero aiutato, anche al chiaro di luna si può sparare, ma lei lo aveva detto, lei mi aveva graziato, le
anime fuggite dal campo di battaglia coprivano le stelle ed eravamo tutti
ridotti alla cecità. Due fucili senza nome mi aiutarono a entrare nella trincea, sussurravano parole vuote, inutili. Mi posero su una barella, sperai
che la granata avesse preso per sé la mia idoneità ad essere soldato, sperai
che mi avrebbero rimandato a casa, anche se avesse voluto dire una vita in sedia a rotelle, ma ancora nessuno mi parlava, emettevano solo suoni
insensati. Appartenevo al dolore che mi impediva di essere cosciente. Mi
ricordai di quando appartenevo a una nazione, a una comunità, fors’anche
a una famiglia e un amore, non solo a un precario equilibro tra vita e
morte.
Leonardo Caenazzo
Liceo Artistico L. Fontana – Arese Classe 3ª
Siamo su un campo di battaglia, in un momento imprecisato di quella che
pare essere la Grande Guerra del secolo scorso. Ma potrebbe essere altrove, tanto che leggendo ci si accorge via via che l’autore, più o meno volutamente, ci consegna il conflitto bellico come metafora di qualcosa di
maggiore, di esteso. Questo si comprende dalle riflessioni che compie il
protagonista della storia, per certi versi surreale ma scritta con efficace
identificazione in quanto dev’essere stato tragico e ostile – appunto – trovarsi dentro a una trincea. Perché la trincea rappresenta la vita, anche se
nei suoi accessi più drammatici. E in quel buco di esistenza giacciono,
oltre al personaggio principale, altri due soldati o compagni di sventura.
Che fanno da contraltare all’uomo che racconta, quasi i due ladroni al lato
della Croce.
Poi arriva la morte, dipinta come una specie di speranza, nonostante tutto.
Viene raffigurata nelle sembianze di una bella donna, pur implacabile nei
suoi giudizi e nelle sentenze. E il protagonista saprà – proprio da lei – che
potrà sopravvivere sebbene a caro prezzo, in quello che diviene inevitabilmente “il precario equilibrio tra vita e morte”.
Un racconto a suo modo geniale, nonostante il tema sia stato spesso
affrontato. Un po’ di incertezza in alcuni tratti del periodo, ma che non
pregiudicano la sostanza e che spariranno scrivendo, ancora.
Roberto Mosca
Svettante in tutta la sua indecisa altezza, il fotografo Livio Ascheri si
destreggiava goffamente tra gli scaffali della libreria di Piazza Leopardi,
in un luminoso tardo pomeriggio di maggio. Non sapendo bene che cosa
scegliere, pensò di chiedere alle altre persone che si aggiravano in maniera sicura attraverso la foresta di carta stampata, ma, colto dal suo solito
impaccio che sembrava stonare con la sua altezza, si limitò ad osservare le
persone che aveva intorno, con uno sguardo che solo un fotografo può
avere, attento ad ogni singolo particolare della fremente vita che lo circondava.
La prima persona ad attirare la sua attenzione fu la dottoressa Prisca
Grandini. Quel giorno era uscita prima dal lavoro, ma, nonostante ciò, era
ancora vestita di tutto punto nel suo tailleur grigio gessato nero, divisa prevista per l’amministratore delegato di una grande azienda. Nonostante l’espressione seria, la pettinatura, una stretta crocchia che le legava i capelli
biondissimi e i penetranti occhi color acciaio, probabilmente ereditati da
qualche parente nordico, rendessero il suo aspetto glaciale, era una donna
creativa, allegra. Amante di classici come Piccole Donne e di lunghe passeggiate all’aperto. Nelle orecchie, nascoste da qualche ciocca ribelle, stavano sempre appollaiate un paio di cuffiette wireless, che al momento suonavano la leggera melodia di Merried Life, colonna sonora di un commovente film Disney. Portava sotto braccio un bel tomo, dai colori delicati,
su fiori e piante officinali.
Berenice d’Aurilia, per il mondo Nice, era la personificazione della serietà. Con quel nome da vecchia zitella appioppatele ventun anni prima dai
genitori, era sempre stata una bambina piuttosto grigia. Non che non avesse una personalità propria e ben definita, al contrario. Fin dall’infanzia era
stata talmente sicura di sé e del suo futuro, che ai suoi genitori veniva da
chiedersi se non fosse la reincarnazione di una vita passata. Sapeva sempre dove voleva essere e quando: a quattro anni aveva deciso che sarebbe
diventata un’avvocatessa e a sei aveva pianificato la sua esistenza da lì
per i diciotto anni a venire. Dunque, come da programma, studiava Giurisprudenza all’università. Non si smentiva neanche con le sue scelte
bibliografiche. Difatti teneva in mano con estrema cura una copia rilegata
di “Dei delitti e delle pene” di Beccaria.
Si distingueva decisamente Michael Werner. Personaggio eccentrico,
vestito di colori sgargianti; aveva la testa coronata da una massa di ricci
biondi. Era uno stilista tedesco, venuto in Italia per perseguire il suo
sogno. Nonostante non fosse una figura oltremodo imponente, quando si
aggirava in un posto qualunque, con la sua sola presenza, era capace di
catalizzare tutta l’attenzione su di lui, diventando per quel frangente di
secondo, nel quale si decideva sul da farsi, il centro del Cosmo.
C’era anche il signor Mimmo Vari, da anni pensionato, che andava ogni
giorno in libreria: sfogliava i volumi per ore, senza mai comprare nulla. La
signora Carola Orlandi, sovente era lì per conto dei figli, lettori in erba,
che avevano ereditato la loro passione dalla mamma giornalista. E poi
il regista Paolo Salieri, la ballerina Alice Reali e tante altre magnifiche
persone.
Certamente Livio sarebbe stato ispirato nella scelta del libro, avrebbe
potuto persino fare amicizia, certamente avrebbe conosciuto persone
straordinariamente uniche, avrebbe potuto scattare foto portentose.
Certo…
Se solo avesse avuto il coraggio di fare il primo passo e entrare nella vita
di quelle persone, che l’Universo gli aveva posto davanti, come su un piatto d’argento.
E invece lui, imbrigliato dal suo io, se li era lasciati scappare. Uno dopo
l’altro.
Beatrice Leva
Liceo B. Russell – Garbagnate Milanese Classe 1ª
La libreria, che è il luogo nel quale è ambientato il breve, ma intenso racconto, è anche il posto nel quale le persone vanno in cerca di risposte, di
possibilità di incontro, sperando che i libri siano il comune denominatore.
È un luogo di scoperta, animato nel racconto da vari personaggi maschili
e femminili tratteggiati con poche frasi, che però riflettono bene le loro
caratteristiche fisiche e psicologiche.
Personaggi che animano la libreria di Piazza Leopardi in un luminoso
pomeriggio di maggio, che rappresentano le persone che il protagonista
vorrebbe incontrare, ma lui è perso nella sua indecisione, nella sua goffaggine e riesce solo a fotografarle metaforicamente.
Il fotografo narratore del racconto è come se fosse pronto a premere il pulsante per scattare la foto dei clienti della libreria, perché è percettivo, li
inquadra, è attento alle loro caratteristiche e le evidenzia.
Purtroppo non riesce ad andare oltre al proprio ruolo professionale e le
occasioni mancate lo lasciano “imbrigliato” nel suo io.
L’indecisione del protagonista sembra richiamarci, e quasi ammonirci, a
non cedere alle nostre timidezze e paure, a non lasciarci sfuggire le possibilità d’incontro che la vita ci può offrire quotidianamente.
Maria Grazia Cislaghi