Rotola, cade, s’infrange, silenzio,
si sporca, si schiaccia, si logora lento,
gira, gira e ti prende la gola,
vuota la mente, non una parola.
Salta, si ferma, poi riprende, ancora,
questo silenzio lento ti divora.
Qui c’è troppa gentee tu ti senti sola,
qui ballano tutti e tu resti da sola,
qui si vive insieme e tu vivi da sola,
qui anche la quiete ti mente, ti ignora,
qui non c’è più aria e tu respiri ancora.
Il mare, le onde, la sabbia, quel vento,
lui rotola, cade, s’infrange,
silenzio
GAIA CRIPPA
I.C.T. Grossi – Mazzo
Classe 3^
Commento:
«L’aspetto notevole di questo componimento risiede nella sonorità delle parole. A dispetto del titolo “Silenzio” le parole sono efficacemente in grado di giocare con il suono: ne sono un esempio le assonanze vocaliche, la vibrazione delle “r” e il sibilo delle “s”; mentre l’insistenza delle “t” riesce a scandire il ritmo incalzante dei versi, quasi una danza estraniante battuta coi piedi. Non importa, allora, se qualche endecasillabo inciampa sugli accenti e straborda, perchè intervengono le ripetizioni dei “qui” e dei “sola” ad abbracciare il verso. La struttura circolare del testo, infine regala il fragore del mare in un modo così vivido che al lettore pare di sentirlo lo schianto dell’onda. A Pascoli questa poesia sarebbe sicuramente piaciuta (Alice Serrao)».
Bianca la cima
del tuo monte sacro,
potenza ed eternità.
Rosa i fiori dei ciliegi
profumano lievi
come un dolce risveglio.
Rossi i tuoi torii
come confini tra terra e cielo.
Pace dei tempi antichi,
riposo dell’anima
cerco tra i tuoi colori.
Mi volto
abbagliato
dalle luci delle tue grandi città.
Resta sospeso tra passato e presente
il desiderio di vederti un domani
paese del sol levante.
ANDREA MUSUMECI
I.C.T. Grossi – Mazzo
Classe 3^
Commento:
«Immaginatevi davanti ad un classico dipinto paesaggistico giapponese, col monte Fuji, la montagna sacra del Giappone, il sole rosso nel centro e i rosei fiori dei ciliegi più giù. Chiudete gli occhi e lasciate la mente libera di cercare la quiete del vivere tra i dolci e marcati colori della pittura, vi accorgerete di essere immersi in un’atmosfera quasi mistica, dolce, avvolgente. Poi, la bravura del ragazzo o ragazza nel scegliere parole che vanno diritte al cuore e la bellezza di questo onirico paesaggio, reso così abilmente vivo, vi avvolgono sentimenti e colori e, soprattutto, di un improvviso quanto melanconico desiderio di recarsi di persona in questo paese del Sol Levante per gustare fino in fondo questo calice di emozioni. (Adriano Molteni)».
Le poesie scorrono nella mente dei poeti
come la pioggia sui vetri,
lasciano spazio alla fantasia
con tante gocce di follia.
La penna dipinge il bianco foglio,
le parole nascono con orgoglio
e il poeta apre il suo cuore
con sofferenza e amore,
Vorrei essere un poeta
ma non sono sicura della meta,
magari è l’infinito,
quello che indico col dito,
o forse è una tempesta,
c’è il caos nella mia testa.
Ma forse è proprio qui
e io la vivo ogni dì.
SIRIA AVETA
Media San Carlo- Rho
Classe 2^
Commento:
« Un tenue gioco di metafore e alchimie accompagna questa poesia, che pur rivelando la giovanissima età di chi l’ha composta, promette esiti interessanti. L’autrice rende trasparente, con equilibrio e terminologie appropriate il proprio senso della poesia, dello scrivere e dei meccanismi che lo compongono. Bella la chiusa, nella quale si riconduce – delicatamente – il poetare all’esperienza del vissuto di ogni giorno. (Roberto Mosca)».
Guardando la libreria bianca,
sugli scaffali pieni di polvere,
i vecchi libri e quelli nuovi.
si sentono flebili voci.
Le senti?
Sono proprio li,
nascoste in quell’angolo di vita,
come piccole anime, ti parlano,
ognuna con la propria storia da raccontare,
come se cercasse di farti avvicinare
e con il loro profumo ti incantano,
ti seducono alla lettura.
E poi di nuovo il silenzio.
Un altro libro,
un nuovo profumo,
una nuova storia.
MARTINA RANIERI
I.C.T. Grossi – Mazzo
Classe 2^
Commento:
«Nel mondo delle immagini e dei social, da uno spazio bianco coperto dalla polvere di un lungo disuso, arrivano flebili voci e tenui profumi. Sono segni di vita udibili appena, ma si tratta di storie, che chiedono di essere avvicinate. Con sensibile attenzione, il giovane poeta ascolta, accoglie ed esprime la loro voce in maniera lieve ma penetrante e comunicativa. Il linguaggio è quello di tutti i giorni, ma la capacità di esprimere è capace di vincere il silenzio. E un’altra storia comincia. (Ombretta Degli Incerti)».
Castello di ombre,
claustrofobico manicomio delle nostre incertezze
nostra prigione
Un ragazzo solitario in una cella di limiti umani
intangibili.
ma insuperabili
tormento di chi riflette,
di chi non vorrebbe muri
ma mattoni da modellare,
semplici uomini
che non accettano limiti naturali,
poiché uomini,
testardi.
Affondano le loro armi e paure
dentro le spesse pareti;
nocche insanguinate ricevono,
le paure compaiono con la fine del giorno,
rovi di pensieri senza frutto
riempiono lo spazio angusto,
ricamano silenziosi un soffitto di tenebre.
La luna lo abbandona,
arriva la noia,
non può sconfiggerlo
affievoliscono le sue speranze
rimpiange il dolore della carne;
la noia uccide.
Soave farfalla, straccia la tela intricata
ravviva la notte di luce,
mostra la salvezza,
mostra all’uomo come salvarsi da se stesso.
il muro non va distrutto
sorvolalo.
E’ nella tua testa.
LEONARDO MAURIZIO CAENAZZO
Liceo artistico Lucio Fontana – Arese
Classe 1^
Commento:
« Percezione, cognizione e libertà di azione hanno più confini che spazi. I desideri, però, di confini non ne conoscono. Il contrasto tra l’espansione della volontà e i limiti della materia ha il potere di incendiare universalmente ogni forma di autocoscienza. La frustrazione dell’appagamento, il piacere dell’eterna tensione, la natura tragica del concreto e quella eroica dell’astratto creano un irripetibile sinfonia di conflitti, che ha il sapore agrodolce dell’infinito. L’infinito, però, non esiste, come non esistono i cerchi perfetti: è solo la mente che annega nel tentativo di emergere. C’è poi chi riesce a crearsi il proprio ossigeno, ma pochi hanno anche il coraggio di respirarlo. Una vittoria piu che meritata per un autore che, cosi giovane, sceglie un simile tema e lo sviluppa con l’intelligenza e la profondità di un filosofo.. (Mattia Pedota)».
… ti cerco stanotte con il tuo candore
puoi calmare il mio cuore
… calante o crescente
nelle fasi della mia vita
sei sempre presente
… discreta e delicata
dai speranza ad una nuova giornata
accogliente e mai appariscente
rivolgi alla terra
la tua parte splendente
… aspetti la luce del sole
per tornare nel buio
senza tanto clamore
… nel silenzio della notte ti ammiro
e poi cado nell’oblio
pregando il mio Dio.
BEATRICE SANZO
ITIS S. Cannizzaro
Classe 2^Dc
Commento:
«Ringrazio l’autore/autrice per farmi vivere le emozioni dei miei incontri notturni con la luna.
I nostri moti dell’anima” illuminati dai suoi amici colori si trasformano e “calmano il mio cuore…”e ti accorgi che la natura che il circonda si traforma in musica…
“E nel silenzio della notte ti ammiro e poi cado nell’oblio pregando il mio Dio…” (Piero Airaghi)».
O viandante
Tu che scegliesti quella tortuosa via,
una strada non battuta
e a tratti dimenticata
Tu, che con immensa fatica,
hai superato gli ostacoli
senza mai scalfire il tuo onore,
Ora hai raggiunto la tua meta,
ma il destino continua a beffarsi di te.
Tu.
che sognavi il mare e la sua pace,
trovi tempesta e bufera.
Intorno a te la natura urla,
si mostra nella sua forma peggiore.
Tu
che ti sei sempre sentito come mare in tempesta
in lotta con te stesso,
ora ti senti cielo grigio di temporale,
triste e in continuo cambiamento,
ma sempre orgoglioso e privo di vergogna.
E adesso, che tutto ti pare un errore
non disperare viandante.
Non perdere la speranza,
non nel momento in cui ne hai più bisogno.
Ricorda sempre viandante
prima o poi il vento cesserà,
le acque si calmeranno
anche per te arriverà la quiete.
GAIA SVEVA ZEMINIAN
Liceo Scientifico E. Majorana -Rho
Classe 1^
Commento:
«Il viandante e una tradizionale metafore per indicare l’essere umano in questa prospettiva l’anafora del “Tu”, con cui si aprono le strofe che scandiscono il testo, diventa un modo per interpellare tutto il genere umano. II viaggio, non privo di difficoltà, è l’occasione preziosa di confrontarsi con se stessi e con la vita per questo il poeta Kavafis scriveva: “Quando mettermi in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga”: perché ci possano essere più occasioni per imparare. Infine, nel testo sono presenti immagini che, seppure attraverso scelte formali ancora acerbe, sanno
evocare l’inquietudine e la speranza che appartengono al sentire umano. (Alice Serrao)».
Eccola …
di un’interminabile foresta
l’unica che ancora ci crede
che nonostante tutto cerca di resistere.
Rossa come un mare di tramonti
di cui non rimarrà altro che il ricordo
Con lei, appesi ad un filo di malinconia.
i ricordi di un’estate
che vorrei non finisse mai.
E’ solo una foglia si,
ma starei qui a guardarla per giorni.
ELIA CHIAVELLI
Liceo Statale E. Majorana -Rho
Classe 2^
Commento:
«E’ una bellissima poesia. Il poeta coglie improvvisamente l’ispirazione che cercava.
Questa poesia inizia con un “Eccola …” che gli esce repentinamente dal petto, dall’anima, dai sensi. L’oggetto è l’ultima foglia di un’interminabile foresta che, pur gia rossa per i freddi e le brume, resiste e vuole vivere cosi come in lui resistono i ricordi di quell’estate che avrebbe voluto non finisse mai.
Il parallelo coi ricordi fa si che la fantasia del poeta renda questa foglia più preziosa di un talismano, più cara di un prezioso gioiello, perché questa piccola foglia rossa contiene tutte le emozioni provate e quelle che ancora si attende; gli fa anche rivivere i sentimenti goduti e forse condivisi con la persona o le persone che stavano con lui.
La chiusa poi, con “Solo una foglia sì,/ ma stare qui a guardarla per giorni” e nella sua semplicità, un gioiello.
Penso che questi versi siano stati scritti d’impeto, sotto la dettatura dell’ispirazione. Mi permetto, pertanto, di suggerire al poeta di lasciare decantare le poesie particolarmente sentite e di riprendere in mano dopo un po’ di giorni. Potranno essere affinate e sicuramente migliorate. (Adriano Molteni)».
V’era un freddo oceano d’un marinaio
appollaiato tra le braccia della deriva
Uno scroscio lontano rimbombava col vento
bagnato, baciava la spuma dell’onda,
Rintoccare l’urlo di quel cuore glaciale
del candido relitto disperso,
pareva un cimitero. Pareva il fragore
del quieto respiro dell’acqua
V’era freddo in quel marinaio chiamato dalla tempesta
Era L’amore del mare che cullava materno
il bimbo inquieto del vento salmastro
Cantano le campane notturne per i teschi sommersi,
suona assieme al naufrago del mare
che stanco vide la Terra Promessa
ANDREA PIRRERA
Liceo Artistico L. Fontana – Arese
Classe 5^
Commento:
«Un testo che nebulizza ai nostri occhi la schiuma delle onde, salendo e scendendo, rimandandoci per qualche istante alle storie e ai vascelli di Conrad e Melville, ai loro marinai perduti nella ricerca di un’avventura ai limiti dell’esistere. Uno studiato gioco di immagini poetiche, una coinvolgente operazione di versi che ci spiega senza spiegare quale sia la pulsione del marinaio, la sua speranza spesso irrisolta di trovare la Terra Promessa. (Roberto Mosca)».
Gli uomini persi che respirano parole rotte
Si specchiano e bevono alla fonte di acqua e fango
E solo alla prima sensazione svelata e nascosta
Il sonno liberatore che gioca da antitesi
Costringe il ladro accorto ad essere guardiano distratto.
Rimane ancora la scena annebbiata dalla nostalgia
E nelle mille stanze spoglie senza soffitto
Non serve che risuoni il mare, che il sole si sciolga.
Finché la malinconia coltivata nell’eco della liberta
Resta incastrata nello sguardo sommerso.
Il buio senza fondo contempla l’ultimo traditore dell’uomo
Che invece sparisce avvolto nella notte della ragione.
REBECCA RUGGERI
Liceo Classico C. Rebora – Rho
Classe 5a
Commento:
«Il fascino di questa poesia, di non facile comprensione, sta nella fitta tela di antitesi che presenta, sospesa tra nostalgia e incapacità di liberare la malinconica eco della libertà.
Troppo pregna di fango e la fonte da cui bevono gli uomini per consentir loro di liberarsi dal sonno che costringe il ladro piu furbo a diventare un guardiano distratto, di non sparire avvolti nel sonno della ragione.
Un messaggio inquietante che il giovane poeta riesce a far penetrare nei cuori. (Ombretta Degli Incerti)».
Quell’amore sentito
mai fu vissuto, solo col dito
scorso, tra pagine gravide
di Storia misteriosa, un rito
eterno negli annali, già segnato
in viaggi spaziali, eco all’udito
di sguardi, incroci interstellari.
dita volanti con ali
ballerine su questi rintocchi,
note cromate d’occhi
celesti, profonde notti.
Ma ho cosi conosciuto
le costellazioni lontane,
in fondo al tuo cielo,
solo tra le onde del mare
di lacrime amare.
Non fu percorso quel ponte,
delicato sentiero lunare
pallido filo che sale ad amare
in recondite vie, profonde.
Sono tangibili storie su onde,
specchio d’una realtà inesplorata,
solo con sfuggenti rintocchi
sfiorata dal cuore cieco
nel cielo dei tuoi occhi,
fugaci e distanti notti.
Gabriele Perissin
Liceo Scientifico E. Majorana -Rho
Classe 5^
Commento:
«Poesia tecnicamente valida, molto scorrevole e musicale. Per distanza semantica, l’accostamento mare-amare appare quasi sempre forzato, ma l’uso di rime e assonanze e comunque apprezzabile, forse il migliore di questa edizione. Il pregio piu grande. pero, e la corrispondenza fra la deli carezza del significato e quella del significante: leggendo si ha la sensazione persuasiva di un mondo onirico, dove il vuoto dello spazio e le onde del mare vengono a confondersi. L’amore appena sfiorato, le ali ballerine, gli occhi celesti, le notti fugaci, il sentiero lunare, il pallido filo, i rintocchi sfuggenti: una sinfonia di immagini morbide e coerenti, che l’incedere languido dei versi non potrebbe valorizzare meglio. (Mattia Pedota)».
Tu avevi troncato me pigna di palma
e il busto giaceva in un pugno d’arena
lungo un assolato pelago in calma
come d’un relitto la morta carena.
Ahi forse io, lasso, ne provai già pena;
ma i semi, poi fior, radici mettean
e salda, fruttifera s’erge serena
la palma che i tuoi umor fendean.
La coltivò un cor che amare ogni frutto
sapeva; e starti al cospetto m’eleva,
nel petto m’allevia e il detto mio alleva,
di Venere e Asclepio, o tu, allieva.
PAOLO MALANCHINI
Liceo Classico C. Rebora – Rho
Classe 5^
Commento:
« Il poeta, quasi staccato dal mondo. recupera movenze antiche inebriando il lettore di una poetica magia. Egli leviga i versi con il mestiere d’artista (al culmine della perfezione anche se un po’ artificiosa) e scopre con la sua lira dolcezze sonore che si diramano in un canto d’amore per la Natura – madre e amante che fanno percepire il “dolore” per quel seme che “giaceva in un pugno d’arena”. Ebbene, quel seme – metafora della vita – diviene fiore ed è coltivato da un cuore capace di amare, un cuore che lo eleva come frutto e nel petto lo protegge… (Hugo Salvatore Esposito)».
Dunque, è così che tutto finisce. Un torpore mai provato prima. Le palpebre che si fanno pesanti. Il battito cardiaco piano piano sempre più debole, sempre più impercettibile.
Poi, semplicemente, si interrompe.
Schermo nero, stacco.
Sono in un tunnel. Un tunnel buio, dalle pareti grigie, ricoperte di muffa. Tra le mie mani, l’elsa di una spada. Alle mie spalle, esseri nascosti nelle tenebre rantolano. Davanti a me, una luce flebile incrocia il mio sguardo, non ancora adattatosi all’oscurità. Chi sono? Come sono arrivato qui? E, soprattutto, cos’è Qui?
Stacco.
Un uomo corre in un bosco, in un’epoca imprecisata. Un cacciatore in cerca della sua preda, o una vittima in attesa del suo predatore? Tiene stretto nella mano il manico della sua scure. Sente il cuore in gola. L’odore della sua paura impregna l’aria che lo circonda. Il terrore appesantisce i suoi passi, che affondano nel fango del recente temporale. Ad un tratto, la sua corsa si interrompe. In mezzo al fitto susseguirsi di rami tra loro intrecciati, l’uomo scorge un pianoforte. Non ha idea di cosa sia.
E non c’è nessun motivo per cui si trovi in quel preciso luogo in quel preciso istante, così indietro (o forse così avanti) rispetto alla sua canonica collocazione temporale. Ma all’uomo tutto questo non importa. La scure gli cade di mano. Le dita sono attratte da quel misterioso alternarsi di tasti bianchi e neri, la schiena è percorsa dabrividi taglienti. E poi, semplice-mente, inizia a suonare. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se non avesse fatto altro in vita sua. E tutto attorno a lui, il tempo danza su quelle magiche note, accelerando e rallentando al ritmo di una partitura divina. Il bosco lascia spazio ad una radura, la radura ad un villaggio contadino, il villaggio ad una città in continua espansione. Sotto ai piedi dell’uomo nasce poco a poco un pavimento, attorno a lui delle pareti, sopra di lui un tetto. Nella grande sala in cui si ritrova, un fuoco scoppietta allegro in un camino immenso, nobili dalle bianche parrucche danzano senza sosta, piatti ricchi ed abbondanti vengono serviti in continuazione. Ma l’uomo sembra non fare caso a tutto ciò. La musica, quella musica meravigliosa che fino a pochi momenti prima non conosceva nemmeno, lo ha rapito, per sempre. Ma come tutte le cose belle, quella melodia ha una fine. L’uomo si alza, tra gli applausi scroscianti del suo pubblico, dio danzante in una magica sala da ballo. Sorride. Ed è con quello stesso sorriso che viene ritrovato, tre giorni dopo, dai suoi compagni, nel cuore del bosco. Lo stesso sorriso con cui ha accolto la scure nemica, prima che gli spaccasse in due il cranio.
Stacco.
La spada è pesante, sono costretto a trascinarla nel buio. Alle mie spalle, il rantolo si fa sempre più vicino, sempre più insistente, sempre più assordante. Davanti a me, nonostante le stia correndo incontro, la luce è sempre più debole. Non posso fermarmi. Non devo fermarmi. Ho paura che quelle “cose” dietro di me possano raggiungermi. Ho paura che la luce possa spegnersi, e lasciarmi qui, nelle tenebre. Abbandonato, per sempre, insieme ai miei demoni.
Stacco.
L’impatto con l’acqua gelida del Mare del Nord è meno traumatico di quanto potesse immaginare. Forse perché ormai non gli importa più nulla di vivere. Non dopo quei sogni, non dopo quelle visioni. La loro nave è incagliata da settimane tra i ghiacci del polo, senza possibilità di salvezza, in attesa di una fine che è ormai inevitabile. Sotto stelle che gli uomini non sono più in grado di riconoscere, circondati da creature acquatiche mai descritte da essere vivente alcuno, la follia dilaga tra i componenti dell’equipaggio. E per questo che il giovane marinaio decide di porre fine a tutto, con un gesto estremo. I suoi compagni sono troppo occupati nei loro deliri metafisici, nei loro incubi geometrici, per prestargli soccorso. E a lui, va bene così. Il suo corpo affonda lentamente, in quell’acqua densa e nera. Alza lo sguardo verso l’alto, per dare l’estremo saluto ai pascoli celesti, a quel cielo che aveva tanto amato da bambino, e che ora temeva più di ogni altra cosa, con le sue stelle disposte seguendo schemi paradossali ed ipnotici. Poi lascia cadere gli occhi verso il basso, verso quei fondali che lo hanno sempre inquietato, e che ora stanno per diventare la culla del suo sonno eterno. Le bolle di ossigeno che espira si diradano sempre più, fino a svanire. E, quando il Leviatano, signore degli abissi, stringe nelle sue spire il suo corpo, il marinaio sorride.
Stacco.
Il rantolo mi raggiunge. Una mano esce dall’oscurità, mi afferra la caviglia. Cado a terra, urlando. L’eco della mia voce fa tremare le vecchie pareti del tunnel. Mentre il braccio mi trascina nelle tenebre, io, ansimando, cerco di raggiungere la spada, scivolata via durante la caduta. Il rantolo è sempre più vicino, sempre più forte, sembra nutrirsi della mia paura, del mio terrore, delle mie lacrime. Con uno sforzo sovrumano afferro l’elsa della spada. E’ questione di un attimo. Un grido stridulo, una corda di violino spezzata, o un vetro che si rompe. La presa sulla mia gamba si fa debole. Il braccio cade. Il rantolo si interrompe. Io cerco di calmarmi, di respirare. Mi siedo. La lama della spada è sporca di sangue. È finita. Finalmente è finita. Mi lascio cadere, stanco, sfinito, distrutto. Guardo il soffitto del tunnel sopra di me. Poi mi ricordo della luce. No, non è finita. Non ancora.
Stacco.
Sir Edgar ne ha viste di opere d’arte, nella sua vita. Probabilmente, giunto alla sua veneranda età, è uno dei pochi a poter vantare una così vasta cultura sull’argomento. La sua collezione privata è tra le più ampie e peculiari del paese. Vanta le migliori tele di artisti noti a livello mondiale. I paesaggi romantici di Friedrich, accanto ai campi di grano di Van Gogh. Gli uomini in bombetta di Magritte, di fianco alle oscure creature di Goya. I ritratti fumettistici di Lichtenstein, affiancati alle surreali rappresentazioni di Buzzati. Quasi certamente, sir Edgar non saprebbe indicare il valore complessivo e spropositato dei suoi averi. Senza ombra di dubbio, ne va fiero. Passa intere giornate nella sua galleria privata. Mangia davanti a un Caravaggio, si siede vicino a un Klimt, a volte dorme sotto un Monet. I migliori anni della sua vita li ha passati in quella stanza, osservando talvolta il mondo esterno, con occhio annoiato, attraverso la piccola finestra in fondo alla galleria. E davanti ad una malinconica ballerina di Degas (o forse un notturno di Hopper?) che, un giorno, sir Edgar comprende che la sua ora è giunta. Beh, d’altra parte, ventidue anni sono tanti, per quelli come lui. Si accoccola a terra, con aggraziata lentezza. E, neU’emettere l’ultimo respiro, si ricorda della sua infanzia, dei suoi fratelli, del caldo latte materno nelle notti d’inverno. Un sorriso sornione attraversa il suo viso felino, un’istante prima che la sua proprietaria lo trovi.
Stacco.
Sono in piedi, di nuovo. Cammino, senza più bisogno della spada, senza rantoli alle spalle, senza paura. Sono io ad avvicinarmi alla luce o è lei che mi sta correndo incontro? Qualunque sia la verità, manca poco. Ed eccola, infine. Una piccola luce al neon bianca, sopra una porta con maniglione d’apertura. Impressa su di essa, la scritta “EXIT”. Dunque, sono arrivato. Dove? Non lo so, ma il mio cammino è giunto al termine. Non mi resta altro da fare che spingere il maniglione… ci provo più volte. Ma la porta è chiusa. Com’è possibile? A cosa è servito quindi tutto questo? Ogni mio gesto è stato inutile, ogni mia speranza diventa vana. Questa è la fine. Non c’è via d’uscita. La luce si spegne.
Schermo nero, stacco.
Il cataro attende il suo destino da giorni. Sa che l’endura, totale astinenza da cibo e da acqua, lo porterà alla morte entro poche ore. Il cataro sorride, lontano da tutto e da tutti, nell’attesa. Il suo peregrinare su questo mondo materiale, il suo vivere in questa gabbia di carne e di ossa, tutto questo, sta per avere fine. La presa del male è destinata lentamente a venir meno, la sua anima c prossima alla definitiva unificazione con il bene assoluto, con la purezza di Dio. La sua gabbia mortale, disfacendosi, libererà totalmente la sua psiche prigioniera. Ecco. L’ora è giunta. Un ultimo profondo respiro. La gabbia si apre. Il pettirosso vola via, libero.
Stacco.
– E adesso?
– Dove ho imparato questa partitura di Bach? Ma, soprattutto, chi è, Bach? ( ‘osa troverò ad attendermi, laggiù, nell’immensità dei fondali marini?
– Miao?
– Che ne sarà dei mici mortali resti, che ne sarà della mia anima pura? Stacco.
L’ultimo.
La luce si è accesa di nuovo. Ma non viene dall’insegna. La porta si è aperta. L’aria fredda penetra violentemente dall’uscio spalancato. Mi scuoto dal tepore e dal sonno. Non indosso alcun vestito. Mi affaccio con la testa all’esterno. Che luogo è, questo? Non ho mai visto nulla del genere. È tutto… enorme. Due mani di dimensioni spropositate mi afferrano con delicatezza e mi estraggono dalla stanza. Tutto attorno a me, rumori che non conosco, linguaggi che non comprendo. Le gigan-tesche mani, collegate ad un corpo altrettanto grande, mi sollevano in aria. Ho freddo, sono completamente nudo, ho paura. Piango. A squarciagola. E piano piano dimentico tutto quello che mi è accaduto. Tutta la mia vita. La mia morte. Quello che è avvenuto dopo, nel tunnel. E non ricordo più il motivo per cui piango. Ora una donna mi tiene tra le sue braccia. Chi è? Non lo so, ma è bellissima. Accanto a lei c’è un tipo strano, con dei baffi altrettanto bizzarri. Non è bello come la donna, ma sembra simpatico. Sorrido. Dunque, è così che tutto comincia.
FRANCESCO SIMONESCHI
Liceo Classico Cl. Rebora – Rho
Classe 5^
Commento:
«Un gioco immaginifico e immaginario, un racconto surreale che l’autore rende materia, riuscendo a farcelo visualizzare, tastare. Il viaggio onirico si distende nella missione del protagonista, dei protagonisti di questa storia, mentre chi legge diviene spettatore suo malgrado, anche quando gli accadimenti sembrano prendere una piega nuova, lontana dal previsto. Quando arrivano gli stacchi tutto si sposta, la scena varia, l’io cambia personalizzazione. Simbolicamente potente il finale, nel quale l’autore vuol portarci un messaggio liberatorio: la nascita e rinascita, il perenne ciclo della vita. (Roberto Mosca)».
La prima volta che entrai nel labirinto mi rimase impresso il silenzio, pervadeva ogni cosa nella sua totalità che non doveva tanto espandersi quanto esprimersi. Quello che non dimenticherò mai, invece, è la voce che lo interruppe: trascinava la tensione al suo culmine, increspandola senza infrangerla. Per tutto il tempo che quelle parole si presero come conquista legittima, io non sapevo più muovermi e non conoscevo altro se non quello che vedevo davanti a me, senza che nessuna pretesa di metterlo a fuoco mi sfiorasse nemmeno.
– “Pensi sia spiacevole?”
– “Hai detto spiacevole?”
Il Pittore mi mostrava il suo quadro e lo offriva deciso ma disperato, come se fosse stato il calice da cui bere il suo veleno, per rendermi partecipe di una morte ingiusta e consegnarmi la condanna di testimone perenne. Non osavo tenere la tela, ma ero dannatamente inebriato dai colori che vi si rincorrevano per unirsi e disfare le forme nei giochi di luce senza inizio né fine. Mi aveva chiesto di accorgermi di qualcosa che io, come lui, non potevo percepire: qualcosa che desse forma a una conferma destinata a non riecheggiare mai più. Ed era proprio la mia mancanza a plasmare le sue espressioni nei primi cenni di una felicità forse rinata, forse persino scoperta per la prima volta. Eppure, guardarlo davvero muoveva le ruote del carro della tristezza che calpestavano la malinconia, rendendola partecipe cosi del loro giro, una volta strappata via alla nera terra. Sopra di lui potevo intravedere il sentimento sospeso che l’aveva completamente svuotato e lo ricolmava solo per strappargli via dolcemente la calma apparente e, mentre me ne andavo tenendo gli occhi fissi sulla strada da cui mi stavo allontanando, lo vedevo scorrere nuovamente in lui come linfa vita le tornata a fluire in un legno secco. Mi disse che ormai potevo andare. Gli risposi la stessa cosa, perché nel labirinto si vaga e si vaneggia, anche se questo lo scoprii più tardi, al mio puntuale ritorno che sarebbe divenuto inevitabilmente troppo frequente. L’aria palpitava nel crepitio del fuoco della follia, sapevo che non sarebbe stato l’unico ad aspettarmi. Cambiai direzione tante volte prima di scorgerlo. Guardava sempre oltre di me, ma senza che il suo sguardo mi passasse attraverso, voleva che ne sentissi solo la lama.
– “Siamo rimasti a Tebe dalle sette porte”
Le parole liquide del Poeta cadevano semplicemente senza neppure scheggiarsi e non poteva esistere mai più nessun idillio, forse la tragedia li aveva già trafitti e uccisi tutti, uno dopo l’altro. Il suo atteggiamento rassegnato evidenziava i tratti più umani di tutta la sua persona, che un tempo era stata annebbiata e pervasa dal divino. I suoi cenni rivelavano che quella t testa era ben consapevole di portare la corona di un’arte inenarrabile, rimasta sul fondo dei vaso di Pandora, avida preda dei ricercatore più acuto.
– “Quando cantavo nessuno mi seguiva e quando stavo in silenzio nessuno ne coglieva il respiro.
Ora siamo rimasti nella scatola chiusa del labirinto. La natura non può più inseguirci ormai, il nostro dramma non può perseguitarci, non conosceremo mai l’ultimo metro, l’unica immagine della sensazione che avremo in mente sarà la nostra, la guerra rimarrà antica e dell’amore non potremo cantare, perché ormai lo abbiamo scordato, come gli altri scordarono a poco a poco la lira. Non sento la voce degli indovini senza sorte: se sbagliano, il tempo gli volta le spalle e se davvero qualche volta riesce loro di cogliere l’ombra della verità, questa sfugge prendendo il merito di essere di per se stessa, senza che la loro esistenza sia affatto necessaria. Anzi, se ne serve come di un flauto che rimane vuoto, dopo che solo il soffio ha potuto animarlo finché l’ha attraversato.
I paesaggi sterminati e contaminati dalla nostra essenza più innata sono pagine di un libro sfogliato troppe volte, che stanca quando è reso illeggibile dai segni del trascorso a cui si è prestato strenuamente. Ognuno di noi è stato banditore del proprio manifesto declamato sottovoce, così che pochi hanno inteso e molti ci hanno imitati, ma solo dopo, fingendosi inviati di chi invece li avrebbe disconosciuti a vita, se solo la morte li avesse esposti a quest5altro affanno. Sono stato, così, araldo di me stesso, dipingendo l’umanità assieme alle venature sottili dei germogli, servendomi unicamente di due colori a me schiavi, mentre io servivo il libero fluire dentro di me, con l’unico piacere di vivere il sentimento amplificato”. Ancora una volta vedevo lo specchio distorto di una vecchia memoria: non mi pareva di conoscerlo da sempre, sapevo solo che mi avrebbe lasciato scavare anche gli angoli del suo genio. Il labirinto era opprimente, le pareti altissime non lasciavano scorgere nulla di ciò che ci circondava, eppure non riusciva a incutere alcun timore, forse perché comunque filtravano i raggi che erano sfuggiti alle salde catene del cielo e la luce donava liberamente forma e colore a ogni cosa, fino all’ultimo granello di polvere. Questa volta non rimasi solo: il Poeta mi disse che voleva ascoltare ancora un’altra storia e che io non potevo andarmene senza aver incontrato il cantastorie, quindi ci trovammo a condividere la medesima strada di cui io però non conoscevo la fine.
Vederli assieme era come assistere a un rinnovato ritrovo a cui io potevo prendere parte da spettatore, davanti a loro o da coppiere, diviso tra loro e il nettare d’ambrosia. Il Filosofo indossava un sorriso leggero, scelto accuratamente tra i contorni fini che distinguono la calma serenità dalla nevrosi concitata, così come la vittoria gloriosa dall’amara rassegnazione. Ma non passò molto tempo che io lo incidessi così nella mia mente, dal momento che entrambi sapevano il perché della loro riunione.
– “L’Affabulatore raccontava sempre dei luoghi più belli e incantava chiunque sacrificasse la risorsa del proprio tempo all’altare del dono della sua immaginazione. Viveva immerso nel lusso dei reami tratteggiati dal ritmo colorato del suo raccontare e, ogni qual volta desiderasse la povertà virtuosa, gli bastava riprendere nuove parole per plasmare altri pensieri. Era nel suo angolo da sempre, ma il giorno in cui se ne avvide lo abbandonò e se ne andò via per sempre. I viandanti non si accorgevano della sua presenza e neppure le giornate più assolate potevano rivelare agli uomini distratti l’ombra che si stagliava sulla strada. Non potendo liberare le parole dalla rete del rifiuto, quelle sparirono e si persero nelle stagioni. L’Affabulatore fece ritorno al paese che ne aveva ascoltato le storie sempre diverse ed era pronto a sciogliere il nodo della lingua che ricattava da tempo la sua mente. Ma quelle rimanevano intrappolate nelle maglie fitte dell’oblio e, dopo essere stato deriso per il suo talento perduto, decise di narrare lo straordinario, lasciandosi andare alla follia che la solitudine aveva coltivato dentro di lui. Storie lontane, remote, assurde. Quando però tutti lo accerchiarono perché pazzo per quanto era dato loro vedere dalle palpebre cucite, si ritirò tra le vette lontane dove passò il resto dei suoi giorni. Solo lassù non giunse mai la voce di un nuovo Affabulatore, prodigio del paese vicino all’unica strada che univa gli abitanti catturati dal sentimento a quelli che non ne cadevano vittime ormai da tempo.
Infatti la finzione era balsamo dolce per le ferite degli uomini, mentre l’arte era fastidiosa per chi era dominato dalla natura umana non potendola dominare”.
Mi girai, sentire il suono della mia voce aveva rotto ormai l’illusione rievocata:
-“Ecco Dottore, io vedo tutto questo”.
E sarei tornato lì mille volte ancora, fino a ricoprire le miriadi.
REBECCA RUGGERI
Liceo Classico C. Rebora – Rho
Classe 5^
Commento:
«Non posso commentare questo racconto, perché non riesco a leggerlo. Nello scorrere le parole sono troppo occupato ad ammirare per poter comprendere. Non è una questione di contenuto e tanto meno di forma. Il punto è che il testo non veicola un messaggio, ma il passaggio transitorio per un mondo inesplorabile. Scrivendo si crea sempre qualcosa di nuovo, combinando elementi con gradi diversi di relazione. In genere, quanto più si è distaccati, tanto più efficacemente ci si svincola dai legami ordinari della mondanità, generando universi più interessanti. Chi ha scritto questo racconto, al contrario, riesce a coniugare creatività e intimità come mai ho visto fare. Sia il coinvolgimento che la distanza dall’ordinario sono al massimo grado. È come se il quotidiano dell’autrice fosse altrove e guardarlo da lontano, attraverso questa patina di struggente fantasia, fosse l’unico modo per entrarvi autenticamente in contatto. Verrebbe da sperare che un dono così raro trovi piena espressione, ma sperando gli si fa un torto. Alla bellezza è bene approcciarsi senza pretese, apprezzando sia la sua presenza che la sua eventuale scomparsa. Sappi solo che, se vorrai continuare a scrivere, io non mi stancherò mai di non riuscire a leggerti. (Mattia Pedota)».
All’improvviso tutto si fece buio,il dolore svanì, e l’oscurità la circondò. Si sentì qualcosa di caldo e bagnato sulle guance e lentamente, con la mano, tastò il suo viso per capire da dove venisse quello strano liquido che ormai stava sempre più evaporando, lasciandole una sensazione di secco e screpolato. Erano lacrime. Lacrime di gioia? Dolore? Non lo sapeva, non si ricordava più niente, la sua mente era vuota. Il suo nome, il suo carattere, i suoi sentimenti, perfino il suo colore di capelli, nulla era rimasto nella sua memoria e nel suo corpo. Tutto e tutti l’avevano lasciata sola. Non aveva paura, si sentiva solo stanca, avrebbe voluto sdraiarsi e dormire; si raggomitolò, le braccia strette a circondare le gambe. Era ormai passato qualche minuto quando un leggero bagliore la costrinse ad alzare lo sguardo, si rialzò e a tastoni seguì quella luce fioca. Stava ormai per arrendersi, più lei camminava più la luce si allontanava, non sapeva più cosa fare, eppure qualcosa quel chiarore doveva pur significare: decise di continuare. Si mise a correre veloce, non voleva rimanere in quel luogo, era troppo lugubre e sinistro! Finalmente tutto si schiarì, si accorse che quel bagliore proveniva da una lampada appoggiata su un mobile antico, che si capiva essere stato ridipinto e laccato per coprire macchie o graffi del legno. Lentamente, intorno al mobile si materializzarono altri oggetti, piano piano si formò un muro, poi un altro e un altro ancora, fino a contornare una stanza con due porte, una di fronte all’altra, ma mentre la prima dava su un corridoio, la seconda era la porta d’ingresso di quella casetta. Era tutto molto accogliente, i muri erano di un bellissimo color pesca e il pavimento era un parquet di legno chiaro. Di colpo la ragazza sentì delle voci provenire dal corridoio e qualcuno aprì velocemente la porta. L’ingresso si riempì di una folla di gente, erano tutti felici, ridevano tra loro e alcuni piangevano, ma di gioia. C’erano due coppie di anziani e altre due di giovani. C’erano dei bambini, alcuni più piccoli e altri più grandi. Mano a mano la stanza si affollò. Arrivarono altre persone, c’era una grande agitazione nell’aria, come se tutti stessero aspettando qualcosa o qualcuno. Alcuni chiedevano quanto tempo mancasse e altri fremevano per l’eccitazione, guardandosi intorno e fissando sempre più spesso i loro telefoni, in cerca di un qualche messaggio importante. Nessuno però sembrava riuscire a vederla, molti le passarono attraverso senza neanche accorgersene, lei li guardava stupita, senza capire. Passò qualche interminabile minuto e qualcuno cominciò a distribuire bicchieri di champagne, dopo poco tutti si zittirono e qualcuno spense la luce. Un rumore di chiavi riempì la stanza ormai silenziosa, e la porta d’ingresso si aprì. Appena questa fu spalancata le luci si riaccesero, un coro di applausi e urla accolsero calorosamente una donna e un uomo. La donna aveva tra le braccia qualcosa, che però la ragazza non riuscì a vedere, così si avvicinò curiosa. Non sapeva perché, ma quel fagotto l’attirava, così si fece largo mentre tutti brindavano alla coppia e si unì a tutti gli altri che si erano fermati ad ammirare il misterioso involto. Quando infine riuscì a vedere il motivo di tante attenzioni, la ragazza strabuzzò gli occhi sorpresa, un bebé, ecco cos’era.
“Cara” a quanto pare la bambina si chiamava così: era molto carina e dolce, sorrideva a tutti felice e rideva, come se anche lei stesse festeggiando l’essere venuta al mondo; il suo sguardo, che si fissava da persona a persona, alla fine si incontrò con quello della ragazza. Cara era l’unica che sembrava riuscire a vederla, la guardò negli occhi, e in quel momento capì, capì che quella bambina era lei tanti anni prima. Riconobbe tutti i suoi familiari,che in quel momento le stavano dando il benvenuto alla vita, e allora anche lei sorrise, intenerita da quella scena; eppure sorridere le fu difficile, come se da tempo ormai si fosse dimenticata come si facesse. All’improvviso però tutto scomparve: la casa, le persone, e per ultima la bambina, che le lanciò un ultimo sguardo rassicurante.
Cara non capiva, che cosa stava accadendo? Ma non ebbe neanche il tempo di un ulteriore respiro, che subito intorno a lei prese forma un altro paesaggio: una strada che si concludeva con il cancello di una villetta. Stava arrivando una macchina, probabilmente i proprietari della casa: subito Cara si spostò per evitare di essere investita, non ricordandosi che in quello strano universo parallelo lei era comparabile a un fantasma. La macchina, come previsto, si fermò davanti al cancello e due persone ne scesero, dirigendosi verso un ragazzo che si era appostato davanti all’abitazione. Avvicinandosi, Cara si riconobbe in una delle due figure, mentre l’altra era sua madre. Il ragazzo aveva in mano un bouquet di fiori e fece per porgerli alla mamma di Cara, guadagnandosi un’occhiata più che incuriosita da quest’ultima e dalla figlia: – Signora, può accettare questi fiori in cambio di un appuntamento fuori programma con sua figlia?- disse lui con un sorriso caldo e autentico sulle labbra, porgendo il bouquet di girasoli e camelie alla madre. Questa accettò i fiori e ricambiò il sorriso salutando il ragazzo: – E va bene furbetto, puoi uscire con Cara, ma vedi di riaccompagnarla prima di cena – Guardando i bei fiori però decise di aggiungere: – Se vuoi puoi fermarti anche tu da noi stasera, non ci dovrebbero essere problemi -Il ragazzo annuì felice: – Grazie mille, resto volentieri – Quando la madre fu entrata in casa, il giovane prese a braccetto la Cara del passato; questa rise di gusto: – Bella mossa Lory, però mi sento un po’ offesa, a me non hai portato nien-te?- II ragazzo la guardò con occhi pieni di orgoglio: -Ovviamente per te ho lasciato il fiore più bello-disse, porgendole da dietro la schiena una bellissima rosa rossa e facendole l’occhiolino. Lei la prese sconcertata e riconoscente, appoggiò la testa sulla sua spalla, farfugliando un grazie e entrambi si sorrisero guardandosi negli occhi. Ma anche quella scena non durò di più, e anche la strada e i due ragazzi scomparvero, come aveva fatto precedentemente la bambina. Cara si guardò intorno; per tutto il tempo era rimasta a guardare la coppia; cominciava a ricordare. Lui, Lorenzo, il grande amore della sua vita. Eppure mentre lo pensava, una strana inquietudine la avvolse, come se ci fosse qualcosa su di lui che non riusciva a riaffiorarle nella mente, come se fosse l’ultimo pezzo di un puzzle non ancora inserito. Intanto intorno a lei era tornato il buio, ma stavolta un’ombra oscura la travolse, una sensazione lugubre che lei non riusciva a controllare: la paura. Il terrore di quello che stava per accadere. Una nuova immagine prese forma, ma stavolta non sarebbe stato un ricordo gioioso, e questo Cara lo sapeva bene: l’episodio che stava per prendere forma era accaduto pochi minuti prima, ed era la sua morte. Non voleva riviverla, tutto ma non quello! Cercò di fuggire , ma ormai la stanza si era già materializzata e come era già successo in precedenza in quello stesso luogo, non ebbe scampo. Si girò lentamente, dove la scena ora si stava svolgendo. La Cara di pochi minuti prima era riversa sul pavimento, un lago di sangue la circondava e ancora ne usciva dalla profonda ferita sul petto, proprio vicino al cuore. Lorenzo era in piedi sopra di lei, l’arma del delitto in mano, lo sguardo vacuo e immobile, fisso su ciò che aveva fatto. Lentamente cadde in ginocchio: – Cos’ho fatto…Cara? Cara svegliati ti prego… Cara?- Ma ormai gli occhi della ragazza erano chiusi, destinati a non riaprirsi mai più. E allora Lorenzo pianse, lacrime amare, colpevoli. La spettatrice gridò contro contro di lui, anche se sapeva che non poteva sentirla, gli chiese il perché, perché lo avesse fatto, anche se la risposta lei la conosceva già: gelosia. Da tempo ormai lui la costringeva a rimanere chiusa in casa, non voleva che incontrasse nessuno, per paura di perderla, e proprio quando Cara aveva tentato di farlo ragionare, lui l’aveva uccisa senza pietà: come poteva questo chiamarsi amore? Anche Cara pianse a lungo, lo odiava per quello che aveva fatto, e odiava se stessa per averglielo permesso. Si sfogò per ore e ore, mentre anche l’ultima memoria scompariva intorno a lei. D’un tratto però qualcosa cambiò, nel suo cuore non c’era più spazio per il dolore, e allora si guardò nuovamente intorno, con occhi nuovi, e proprio davanti a sé comparve lui, il vero Lorenzo, il ragazzo che aveva sempre amato, ma che ormai era morto, esattamente come lei. Le stava porgendo una rosa, e intanto sorrideva, quel sorriso che l’aveva sempre incantata. Prese la rosa e ne assaporò il profumo, mentre il ragazzo svaniva lentamente davanti a lei. Fu quando lui si dissolse completamente che i petali rossi del bel fiore cominciarono a cadere, uno a uno. Cara chiuse gli occhi mentre aspettava che anche l’ultimo petalo si fosse staccato. Infine quindi scomparve anche lei, con un volto disteso e finalmente rilassato, privo di ogni rimpianto.
LARA BERTOLOTTI
Liceo Russell – Garbagnate Milanese
Classe 3^C
Commento:
«Un racconto sulla violenza di genere che dà voce al grande dolore di una ragazza che, come in un universo parallelo, ripercorre ricordi lontani da quello molto piacevole, luminoso, affollato dai familiari che danno il benvenuto al mondo a Cara, la bambina che era lei tanti anni prima, per passare all’incontro accattivante del suo ragazzo con sua madre. Lorenzo, il grande amore della sua vita, che però ora rivede in piedi sopra di lei, riversa sul pavimento in un lago di sangue. Questo racconto non è la storia di un amore, ma una storia di possesso, isolamento, gelosia, rabbia, violenza. È la storia di un amore malato che diventa femminicidio, che lei rivive drammaticamente, ma con un finale da non spoilerare. (Maria Grazia Cislaghi)».
“Ricordalo sempre Yuu, noi siamo una famiglia”
Fu quella l’ultima frase che udì dal flebile suono della tua voce, prima di vederti correre impetuoso – con gli occhi infiammati di rabbia e dolore -verso l’immortale creatura dai capelli argentei custode di risa malvagie, come i tipici antagonisti di una favola, stavolta senza lieto fine.
Urlai il tuo nome. Lo urlai più volte.
La verità fu che la mia voce non ti raggiunse mai. Con una lentezza che sembrò infinita, vidi il tuo corpo essere distrutto da quel vampiro, proprio come i nostri sogni e il futuro che ci eravamo promessi di costruire. Volevo annullare il distacco tra i nostri corpi, volevo venire da te, stringerti e dirti che sarebbe andato tutto bene, che quello era solo un incubo. L’immagine di te disteso su quel pavimento bianco in amaro contrasto col colore delle tue ferite è ancora fresca nella mia mente… e alla fine fui solo io a scappare. Non ho colpe da poter giustificare né più qualcuno che mi perdoni: Ho lasciato che portassi il peso delle mie sciocche azioni sulle tue piccole fragili spalle. Ho sempre straparlato, lo so. Il sorriso che avevi quella sera era ricolmo di speranza, te lo leggevo così bene. L’ho stracciata, ho stracciato la speranza che confidasti in me.
Non fui per niente forte, quelle furono tutte parole soffiate in aria. Forse sarebbe stato carino dirti – Ti voglio bene – almeno una volta. Forse dovrò vivere di questo straziante rimpianto.
Vorrei intrecciare ancora una volta le mie dita sottili fra i tuoi morbidi capelli dorati che adoravo tanto, oppure i tuoi occhi blu cielo. Quelli erano la cosa più bella che potessi mai ammirare di te. Vorrei tornare indietro nel tempo, tornare alle sere in cui stavamo sdraiati l’uno accanto all’altro, mentre davi spazio alle tue fantasie più assurde. Parlavi. Parlavi parecchio, ma la tua voce era qualcosa di cui non potevo fare a meno.
Posso vederti ancora una volta?
Non riesco ad abbandonare l’idea di non averti accanto, di non rivedere più il tuo piccolo e dolce sorriso. Ho l’impressione di avere le mie mani ancora tinte del tuo cremisi e mentre chiudo lentamente gli occhi, vedo ancora te. Mi lasciai trasportare dall’eco delle tue ultime parole e incatenato dal crudo passato cerco invano di andare avanti, portando alla realtà i nostri desideri. Assorbii fino all’ultimo goccio, l’irrefrenabile sete di vendetta che riservai per questo giorno. Ucciderò quegli esseri, ucciderò i vampiri che ti hanno portato via da me con tanta avidità. Afferro la mia spada con fermezza, e impassibile la trafissi con tutto l’odio che avevo in corpo, nel petto del succhiasangue.
Sento sussurrare il mio nome e respiri affaticati mi convincono ad alzare il mio volto verso il vampiro.
Una fitta possente travolse il mio cuore, non permettendomi di mantenere la calma e il sangue freddo.
Eri tu Mikaela.
Ed eri ancora vivo dinanzi ai miei occhi., ricominciarono a versare lacrime per te.
DENISE ALESSANDRA SACCO
IS Puecher Olivetti – Rho
Classe 4a
Commento:
« Il breve racconto sceglie, come spesso accade in questo tempo, Tambientazione fantastica. Non è però astratto il tema, che rivela un sentimento e un legame profondo fra il protagonista e qualcuno che non c’è più. Non ha però senso razionalizzare, chiederci chi siano i soggetti. Il testo vive di per sé, del suo pur acerbo equilibrio e della metaforica narrazione di un rapporto finito improvvisamente, a causa di un traumatico distacco. Un buon tessuto narrativo, che con qualche aggiustamento nella parte finale poteva essere ancora più nitido. (Roberto Mosca) ».