Sulla finestra rotta, una piccola rosa giace, incustodita.
Si sente solo il cuore nel silenzio della notte.
Nessuna luce che accenda l’oscurità,
solo la quiete del mondo ed il respiro affannoso del vento.
Solo l’ombra della luna minacciosa si aggira
divorando tutti gli oggetti circostanti
che disperati cercano rifugio nell’oscurità.
Il freddo respiro dell’aria e le coperte fredde come seta
avvolgono di brividi la sera.
E piccole gocce di cera fusa, come miele,
si sciolgono sul suolo consumato.
Solo una lacrima, lentamente, riga una guancia fredda
ed al posto della piccola rosa
solo pezzi di vetro taglienti
restano vicino ad una goccia di sangue, incustodita.
Si sente un vago odore di fumo, ma nessun calore.
Provo a chiudere gli occhi
ma il mio corpo respinge la mia anima.
Ormai non sono più nulla
solo le ceneri di un vecchio fiore bruciato
che nell’aria pigra volteggia senza scopo né destinazione.
Solo il sangue, il sudore, le lacrime
si nascondono dalla luce, ormai alta,
rintanati in un falso sorriso
che contrasta due occhi tristi, ma sinceri,
in ricordo della fredda e buia notte
trascorsa tra le memorie di un lontano passato
ALESSANDRA MARUKHA
S.M. A. Manzoni Rho
Classe 2^
Commento:
«Poesia fatta di immagini e di emozioni.
L’autore dimostra una grande padronanza della lingua e una capacità lessicaleindubbia. Difficile non rimanere meravigliati. Ci sono versi che pesano come: “Provo a chiudere gli occhi ma il corpo respinge la mia anima”, la cui profondità ammutolisce. Continuando a leggere questa poesia, troviamo delle costruzioni liriche che denotano una maturità non comune, che fa pensare. Nel valutare questa opera posso solo affermare di aver letto un buonissimo testo. (Adriano Molteni)».
Una notte,
una notte senza stelle,
la luce del caos,
dei fulmini che squarciano il nero immacolato,
sovrastano i rumori della città,
della città che non si ferma,
noncurante della notte.
Nessuno guarda il cielo, sognando,
tutti pensano a sopravvivere,
anche oggi,
nessuno si è accorto che manca il firmamento.
Un mondo senza senso,
dove tutto il senso è nella persona stretta a me,
che vale tutto il mondo e anche di più;
e non serve la chiarezza del cielo
perché la mia stella è qui,
accanto a me.
LEONARDO CAENAZZO
I.C. E. Franceschini Rho
Classe 3^
Commento:
«La poesia si snoda attraverso tre polarità: una notte buia attraversata da fulmini minacciosi e circondata dal caos; una città indifferente, tutta presa dalla sua quotidianità, al punto da non rendersi conto che non si vedono più neanche stelle, e del tutto incapace di sognare; la presenza di una persona che supplisce alla mancanza di senso dell’universo ed anzi in qualche modo lo sostituisce. Un amore espresso con notevole forza evocativa: forse adolescenziale nella sua assolutezza, ma già maturo nella consapevolezza che il legame forte con una persona può aiutare a ridare senso al mondo. (Ombretta degli Incerti)».
La via deserta e fredda come un’anima vuota,
il tempo che passa con quelle vecchie anime annoiate
che abitano la via.
Quei pomeriggi d’estate a fare i compiti
sulla panchina del cortile,
affacciata su quel silenzio
che sale dall’asfalto rovente.
Il vuoto spezzato
dall’improvviso abbaiare dei cani
della casa di fronte.
Quel giardino di piante, bisce e lucertole,
di rami e foglie che sporgono sulla via
e impediscono il passaggio a ogni gatto.
Ma i raggi del sole battono sulle teste
dei bambini che giocano in quella solitudine
l’asfalto rovente brucia la suola delle scarpe.
Ritorna la vita.
FRANCESCO MANZOTTI
Media Paolo VI – Rho
Classe 1^
Commento:
« Percorrendo altre strade, conosceremo altre città e avremo tanti incontri. Ma la via dove abbiamo fatto i primi passi accanto ai nostri genitori e ai primi amici, se pur la consideriamo “…una via deserta e fredda come un’anima vuota…” la ritroveremo e la ripercorreremo nei nostri ricordi, rivivendo luoghi e persone che hanno lasciato in noi quel piccolo segno che nel tempo, con altri, ha riempito quel vuoto della nostra anima. (Piero Airaghi)».
Guardo l’orizzonte,
là dove il mio sguardo si perde,
inspiro l’aria salmastra.
Aspetto che il sole baci l’acqua,
che il mondo si tinga di rosso.
Con un nostalgico sorriso osservo
il cielo terso che si oscura.
Appaiono i primi bagliori,
che nel loro tacito silenzio
illuminano la terra.
Succedono le ore, i minuti, i giorni.
Ecco, ancora attendo…
MARIACHIARA ANGELINI
Media Paolo VI – Rho
Classe 1^
Commento:
« In questi versi, chi scrive regala al lettore il gusto dell’attesa, la sensazione di sentirsi in sospeso, avvolti in una nostalgica e indeterminata atmosfera. Si può immaginare il poeta immerso nei suoi pensieri, seduto sulla soglia del paesaggio, forse la battigia al crepuscolo, con il mare che odora di infinito. La realtà osservata e la natura divengono la metafora di un sentimento e di uno stato d’animo interiore. Perché l’età della preadolescenza è un’età di attesa e di grandi aspettative verso il mondo. Chi scrive aspetta che l’idillio e la noia, raccontati da Leopardi, vengano interrotti da un evento folgorante o da un incontro desiderato e sorprendente, capace di imprimere il senso e la direzione al meraviglioso cammino che si sta cominciando a percorrere.(Alice Serrao)».
Sono rimasta immersa in un silenzio
Che di Silenzio
Aveva ben poco,
Nascondeva lacrime,
Tremolii
E singhiozzi,
Tonfi secchi
E respiri mozzati.
Sono rimasta immersa nel silenzio
Di chi il silenzio non lo sente mai
Di chi piange
E tace
Solo quando non ha più voce.
Sono rimasta avvolta
In una coperta di paure
Sdraiata su un letto di indecisioni
Su un cuscino di debolezze
Che ho riempito di patimenti umidi.
E rimango immobile,
Asfissiata dal dolore.
C’è qualcuno?
Non sento niente,
Questa quiete è ogni secondo più assordante.
ALICE CURCIO
Liceo SU C. Rebora
Classe 2a
Commento:
« Il componimento mette in luce la natura multiforme del silenzio, giustapponendo intensità e delicatezza attraverso scelte lessicali accurate. Il silenzio può sostanziarsi in un tumulto dell’anima velato da una patina di quiete apparente, ma anche nel più estenuante degli abbracci. Si va dalla disperazione tacita di “tonfi secchi” e “respiri mozzati”, a quella vivida di chi “piange e tace solo quando non ha più voce”. Il verso torna a spegnersi con l’immagine del letto umido e opprimente, per poi riesplodere nel fragore della quiete. Le transizioni fra i due poli appaiono fluide, e l’aggettivazione parsimoniosa evita che il vigore risulti sfrenato e il languore mellifluo. Essenziale è il rapporto dell’autrice, immersa nel connubio fra il vuoto e il pieno, con la vacuità del mondo esterno: un eccesso di sensibilità può estraniare e prosciugare, ma è questa stessa poesia, nella sua perspicace raffinatezza, a dimostrare che ne vale la pena.(Mattia Pedota)».
Il cielo nero
tiepido come liquido
scioglie le mie lacrime.
Vita lustra
di ricordi nel mare
dell’oscurità.
Macerie.
Rimanenti.
In campi di fredde
e grigie margherite.
Spine in petto.
Macerie.
Nodi in gola.
Permanenti.
Appuntite stalattiti
pendono
da fitti tetti
soavi.
La mia vita
in questo momento
con una matita
sta scrivendo.
Fuoco incandescente,
volanti fogli di carta
presto in cenere
finiranno.
Presente imminente,
come vento volante,
avanti vuole andare.
FEDERICA LAPIANA
Liceo Sc. E. Majorana
Classe 2a
Commento:
«“Petto spinato” cerca di esprimere, con un susseguirsi di immagini martellanti, lo stato d’animo di un giovane di oggi che vede intorno a sè “ macerie permanenti”. Dai “fitti tetti soavi” delle nostre città vede pendere “appuntite stalattiti”, che lasciano intravedere macerie e spine e trasformano i campi fioriti in distese di grigie e fredde margherite. Il cielo gli appare come un cielo nero che fa sciogliere in lacrime, i ricordi sono sommersi dall’oscurità. In questo quadro, i bisogni e i desideri della vita, che pure non possono non essere abbozzati, sia pure con il segno debole di una matita, appaiono destinati a ridursi in cenere. E tuttavia, questo presente, definito con un ossimoro “imminente”, non vuole fermarsi. Malgrado tutto, vuole andare avanti. Questa inquietante poesia, che utilizza versi brevi e incalzanti per esprimere un dolore sordo e solitario, sembra reclamare nel sincopato finale un bisogno di futuro che richiede a tutti noi – compagni, educatori, adulti in genere – un aiuto chenon sia soltanto un “vento volante”, ma una presenza solidale, capace di contribuire alla costruzione di una speranza. (Ombretta Degli Incerti)».
Da sola vagavo per le vie della mia città,
Lunghi meandri misteriosi
Carichi di chiara personalità.
Osservavo i binari seduta su una noiosa panchina,
Frenetica lentezza scorreva
Insinuandosi nel l’indifferenza altrui.
Le ore passavano e i pensieri si facevano bui
E sotto la luce delle stelle,
scoprivo tutta una nuova città.
Con occhi diversi e curiosi la scrutavo
Ogni suo minimo dettaglio ammiravo
E nella beata solitudine,
Scoprivo una dolce compagnia.
FRANCESCA PESCINA
Liceo Sc. E. Majorana
Classe 2a
Commento:
«C’è la meraviglia e il piacere della scoperta in questa poesia. C’è la capacità di analizzare ciò che ci circonda e anche quella di intuire come l’esterno influisca sul nostro comportamento interiore. C’è pure l’abilità dell’autrice di trasportarci dal giorno alla notte, dalla frenesia lenta (ossimoro usato come riflessione) del giorno, che rende gli uomini indifferenti , alla tranquillità della solitudine notturna che però diviene una dolce compagna, capace di dare un nuovo diverso volto alla città. (Adriano Molteni)».
Gocce di cera,
Barriere di plastica
Si scioglie la cera
Si scioglie la maschera. Strade vuote,
Abbandonate dal vento, Persone vuote,
Persone senza tempo.
Attimi perduti,
Fotografie incorniciate, Abbracci perduti,
Fotografie non scattate. Destini ingiusti,
Scelte sbagliate,
Giudizi ingiusti,
Partenze isolate.
Sono un fotografo,
Sono un pittore,
Riprendo un tramonto, Disegno un fiore.
Colori sparsi,
Colori mischiati,
Sorrisi persi,
Sorrisi scappati.
Amori di oggi,
Amori di domani,
Sguardi sull’oggi
Sguardi lontani.
Sono un fotografo,
Sono un pittore,
Riprendo un tramonto, Disegno un fiore.
MATTEO ZANDONADI
Liceo Sc. Falcone&Borsellino
Classe 1
Commento:
«Il componimento permette di indugiare tra la realtà e la fantasia e consente di scoprire, percepire e interpretare un altro mondo, un mondo surreale dove le strade sono vuote e le persone sono “persone senza tempo”: immagini e visioni catturate e dipinte, attimi consumati che accarezzano “abbracci perduti” e scrutano “destini ingiusti” e “scelte sbagliate”. Intanto, quel disegnare un fiore e fotografare un tramonto contornano una rappresentazione artistica che mette in luce “sguardi lontani”, “sorrisi persi” e “sorrisi scappati”.(Hugo Salvatore Esposito)».
L’ultimo inverno gioiva nel contemplarsi allo specchio, la notte lo
tentava dietro il sipario delle finestre dimenticate, ora in questo secolo
dipinto da cantastorie caduti riconosco i tuoi gesti ormai stinti
senza che ti riveli.
Queste mani che tendono avide fino a sporcarti
Sono rovi che si increspano a rivestire i silenzi di luce,
le fiamme palpitanti intrecciano nascoste fili spezzati
e un altro addio appassito stride e stringe nel suo lampo d’eterno.
Fingono le memorie di cenere, le stanze aride
Fingono anche le carte sparse e le loro scintille scontente,
Gelide ancor prima di sfiorare vive la terra rossa.
Fuggite da questo teatro disilluso, dalle voci dilaniate, dal personaggio
perfetto di qualche vento rimpianto, dalla vicinanza solenne e
pura nell’ombra del disinganno.
REBECCA RUGGERI
Liceo Cl. C. Rebora
Classe 4a
Commento:
«I ricordi d’amore e d’affetto sono incarnati in noi come dure pietre.A volte ci annullano, ci schiacciano, ma poi arriva un dolce vento che porta vibrazioni del’anima, e il tutto è sublimato accompagnato da colore e musica trascendentale. Come “magia” piove sul deserto acqua fresca e ritroviamo forza e coraggio per continuare a vivere il nostro cammino terreno. Questo scritto mi accompagna nelle mie pause di riflessione e trovo la speranza dove “…sono rovi che si increspano a rivestire il silenzio di luce…” e il nostro vivere dibattuto fra gioia e dolore (Piero Airaghi)».
Nel regno di cristallo,
palazzi, persone, anime; tutto è un po’ più fragile.
Nel regno di cristallo,
il vuoto del tutto è sovrano
e la melanconica condanna della routine la sua regina.
Nel regno di cristallo,
il tutto del nulla avvelena dolcemente i sudditi,
con il conforto della ripetizione che maschera l’abisso.
Parole di cristallo s’innalzano e si divincolano,
disperato grido d’ostinato dissenso all’inevitabile,
annientate infine dai spaventevoli silenzi dei cuori.
Nel regno di cristallo,
persone di cristallo lottano e si frantumano,
corrono inseguendo una meta fittizia,
scavalcando noncuranti i frammenti di chi s’è spezzato,
perdendo lucentezza per un opaco status,
per un’apparenza resa iperbole
nella parabola discendente della vita.
Nel regno di cristallo,
qualche persona di fragilissima fattura osserva in silenzio.
Antieroi splenetici, individui cosmostorici
portatori della ragione del rancore,
proteggono i loro sogni dalla mattanza della consuetudine.
Nel regno di cristallo,
una crepa si fa strada inesorabile,
invettiva furiosa ad un mondo di soli riflessi,
in un regno di cristallo destinato a tornar sabbia.
DAVIDE CAPRIOGLIO
Liceo SU C. Rebora
Classe 5a
Commento:
«Questa poesia è uno straordinario condensato di acume e capacità critica. Con versi densi di finezze intellettuali, l’autore riesce ad esprimere la tragedia della transitorietà esistenziale attraverso un mulinello di metafore ingegnose ed incisive. È in questo scenario che si inquadra l’ordinarietà come il supremo dei veleni, quel sottofondo anestetizzante che disconnette il pensiero, e quindi l’Essere, da se stesso, confinandolo in una prigione di apparenza eretta sull’inerzia. In un regno così poco fiabesco, senza draghi né principesse, ad emergere è proprio l’antieroe, l’individuo splenetico che ripudia la realtà e protegge i suoi sogni, malinconici custodi di un mondo ideale, sotto una coltre di rancore. È solo qualche forzatura di troppo, smussabile con l’esperienza, a porre un freno all’enorme potenziale di quest’opera, che sul piano intellettuale brilla come poche altre. (Mattia Pedota)».
Navigo da un mare all’altro
Guardo da un orizzonte all’altro
Sento il vento
strisciarmi sulla pelle
E il Serpente
fischiare nelle orecchie.
Questo cupo Serpente tumultuoso
Talmente lungo da essere invisibile
All’occhio umano
Visibile forse all’umanità animale
Visibile forse dal più sensibile essere animato.
I cigolii degli uccelli
Che cadono come pietre
Nella mente del Pazzo.
Ma cosa è davvero un Pazzo
Se non l’essere
più sensibile animato?
Chi è davvero il Pazzo
Se non il ripetente di parole
Ripetute,
Fino allo sfinimento
Di pronunciare
Parole
Ripetute.
Chi è davvero quel Pazzo che
A volte
Straborda da ogni bordo umano
Naviga nel mare più innavigabile
Vive di ogni gioia invivibile
E straborda.
Chi è davvero Pazzo
Se non colui che cade e ricade
Se non colui che naviga
129
Guarda, sente, vive
E Ricade
Vive
E ricade.
CHIARA MANCINELLI
Liceo Art. L. Fontana
Classe 5a
Commento:
«L’autrice indaga sul paradosso della “follia” che può condurre a saggezza e come la stessa permetta di “perdersi” in un mondo sconosciuto nel quale “i cigolii degli uccelli / cadono come pietre” e dove solo coloro pronti alla prova affrontano le insidie di un destino “burlone”. “Chi è davvero il Pazzo?”. Quel “folle” potrebbe apparire solo un “ripetente di parole”, in realtà si rivela un saggio viandante capace di spingersi oltre, osservare e vivere, ricadere e risalire. Segnalo il calligramma finale che sintetizza la poesia.(Hugo Salvatore Esposito)».
Dovrò lasciar andare
il tuo ricordo.
Ogni possibilità immaginata,
sognata
è sterilizzata dalla tua assenza,
dalla consapevolezza che
dovrò cancellarti
dai miei compianti
dai miei rimpianti,
dai miei pensieri,
dalle mie notti
insonni.
E quell’emozione soffusa,
racchiusa, che usavo
come anestetizzante
verrà sostituita dal ritualistico
dolore che mi renderà
impotente.
Impotente
nella mia condizione,
impotente
nella mia
versione
dello “stare al mondo”,
dello stare a casa,
del non stare,
dello stare
senza di te.
ADELE SAITA
Liceo Art. L. Fontana
Classe 5a
Commento:
«L’assenza, la mancanza, occupa lo spazio di questi versi e diventa l’ingombrante protagonista di questa poesia; perché occorre fare i conti coi posti lasciati vuoti e con i ricordi di chi se ne è andato. Ed è difficile dire: mi manchi. Eppure, questa poesia non fa che ribadirlo, lasciando che la musicalità, le rime interne e le ripetizioni rappresentino concretamente lo strumento per annunciare questa mancanza che si fa eco tra le parole. All’andare si contrappone la condizione dello “stare a casa, dello stare senza” come recita efficacemente la chiusa. Molto di ciò che siamo viene definito dalle relazioni che intrecciamo con l’altro, dal dialogo con un “tu” che è capace di emozionarci, con la sua presenza, ma anche con la sua mancanza.(Alice Serrao)».
– Crede che tutto sia come prima, che possa vedermi attraverso i vetri, che possa sentire ancora il profumo della poesia e vivere le notti dei viaggiatori, come se non esistessero viali in cui perdersi e sentieri che non percorreremo mai. Forse parla con le case e lascia che le tende gli raccontino le loro storie o stringe le mani delle figure che popolano i suoi sogni di notte, ma non osa sciogliere i nodi dei rami che lo graffiano per le strade. Da giorni vive incatenato e la luce si prende gioco di lui. – Lascia che stia nella sua tela d’estasi dove la rete della realtà non può renderlo prigioniero della vita mescolata alla morte. – Ecco, sta arrivando, andiamocene. Chiedevo alla fantasia che esistesse la libertà e mi ritrovavo nella nebbia di volti mai visti e paesi fatti di buone storie e favole di respiri. Camminavo e mi chiedevo cosa potesse accadere in sette secondi, in tutti gli angoli degli universi che si specchiano negli occhi semichiusi, timorosi di perdere qualche galassia negli sguardi troppo distratti per contarne le stelle. Volevo catturare l’infinito nell’onda che si forma ai piedi di Venere solo per sgretolarsi e ricomporre i pezzi, incosciente del suo ripetersi dinamico nell’immobilità che copre il perpetuo. Sentivo ogni singolo frammento ramificarsi in mille alternative possibili, lo vedevo plasmarsi tra le mani delle azioni oppure svincolarsi e diventare polvere inafferrabile. – Forse dovrei farmi vedere un’ultima volta. – Assecondarlo significa pugnalarlo lentamente, affilando la lama con l’illusione e affondando il colpo con l’inevitabile disillusione. – Che questa sia la sua morte allora, dolceamara. I giorni si erano cristallizzati come i fiori in autunno e ora tornavo esattamente da dove ero venuto: dalle case che attraverso i vetri delle finestre bevevano quel paesaggio distante e nostalgico, dagli stessi alberi che sembravano gridare nel silenzio, perché la forza del vento si precipitava a raccoglierne le urla per poi disperderle negli echi. Ero fermo davanti casa sua ormai, ma non avrei saputo dire come ci fossi arrivato. Fermo senza attese, senza aspettarmi nulla, preda di qual-siasi cosa potesse accadere. La vidi e le parlai d’impulso, come se mi avesse sospinto una mano fatta di sabbia. Le raccontai di istanti precisi a cui tornava spesso la mia memoria, momenti in cui avevo fissato dettagli nitidi che si imprimevano decisi ogni volta che la rivedevo. Lei sospirava e sussurrava quanto fossero eva-nescenti e in tutto questo avevo l’impressione che mi spingesse per farmi inciam-pare in una corda tesa, ma che allo stesso tempo non me ne dovessi preoccupare: come se mi annunciassero una dichiarazione di guerra, ma che sarebbe avvenuta entro confini troppo lontani. Era uno dei tanti discorsi tenuti per strada, mentre noi eravamo chiusi in una campana di vetro dove tutti i suoni esterni penetravano ovattati e il tempo si dilatava e si stringeva, ora placido ora convulso. Le parole scorrevano lente sui piatti della bilancia con cui entrambi cercavamo di soppesarne gli effetti, fingendo che il controllo fosse nostro schiavo e che noi non avessimo fili tesi sopra le nostre teste a reggerci e a tirarci in una lotta continua tra burattinai troppo avidi di follia. Parlavamo di sensazioni mescolando brividi trattenuti e nel controsenso che incastrava ogni frangente espresso o ritenuto, abile nel disordine, io mi smarrivo sempre più, entrando negli antri più bui senza che la paura potesse prendermi, sfuggivo da quella figura tetra così come dalla falce che eppure continuava a mietere. – E se un giorno morissi? Un vaso di fiori che cade a terra. L’acqua fa da sfondo impalpabile a protagonisti destinati a diventare comparse, mentre confondono i loro colori per esaltare la bellezza di uno in quella dell’altro. – Perché dovresti? – Non sono immortale. Una scheggia di quel vetro che ferisce una mano concitata. Si ritrae stringendo le dita e si ferma non appena lo sguardo fa sì che il rosso si rifletta nelle pupille e che la mente si lasci cogliere nelle reti della finta meraviglia. – Se fossimo invischiati in una ragnatela? Gli occhi vaghi e persi prima di addormentarsi che seguono inermi la guerra contro il sonno, sperando di cedere, lasciando scorrere via gli ultimi pensieri annacquati e sbiaditi nelle sfumature dietro quel velo che ormai sta calando piano piano. – Potremmo essere dovunque. La luce che si insinua tra le ciglia sottili con una forza delicata che prima annebbia e poi diffonde il suo dolore, servendosi di un’iride per apparire, dispiegare la propria essenza sfuggente per poi ritrarsi e mostrarsi altrove creando fili d’argento liquidi. – Dovunque. Camminava e forse io avrei dovuto chiederle dove andasse, ma tutto quello che non le avrei mai chiesto era un tempo sotteso imbevuto della mia più cieca certezza e sapevo che sarebbe rimasto inviolato per sempre. Gli attori di quell’autunno si ritiravano insoddisfatti, lasciando strascichi di pioggia e luce fosca, mentre la notte si univa al giorno nel chiarore che lottava ad ogni alba. Accumulavo le ore che affollavano le stanze a poco a poco fino a soccombere sotto il loro peso, fatto di immagini disperse, senza contorni in una nebbia opprimente e carica di incanti. Il sonno è la mano dell’oblio che strappa vecchie memorie di corsi d’acqua seccati in pochi minuti; vorrei che mi avesse preso in quel giorno in cui invece scoprii dapprima il popolo dei mortali e subito dopo la vicinanza delle loro città sepolte: un dialogo durato niente e un’incisione impressa nell’eterno. Quando tomai da là nessuno era pronto a credermi, io che poco prima ero un viandante davanti a quattro mura, sicuro di quelle parole. Probabilmente perché era morta sette anni prima, ma lo seppi solo leggendo la sua lapide un attimo dopo averle parlato, seguendo la mappa che tracciavano i miei passi. Era davvero un’anima ora. Rimasi a sentire con le dita i solchi della data incisa. Che questa sia la mia morte allora, dolceamara.
REBECCA RUGGERI
Liceo Classico Cl. Rebora
Classe 4a
Commento:
«Qui occorre fare un passo indietro e fermarsi ad assaporare l’arte al suo culmine. Il contrasto fra la densità delle singole frasi e la rarefazione delle loro sinergie rende controproducente ogni sforzo interpretativo: una pretesa di univocità svilirebbe il cuore di un labirinto in cui l’unico atto sensato è perdersi. Un talento simile necessita più di espressione che di comprensione, e mi auguro solo che in questo non venga mai ostacolato. (Mattia Pedota)».
Era una notte di primavera. Il vento accarezzava delicatamente la città. I soffioni danzavano sull’aria, seguendo la sua scia. Le lucciole facevano a gara a chi splendeva di più. Sembravano tante piccole scintille. Il cielo era ancora incerto: pareva che ì colori stessero litigando proprio sotto gli ocelli della maestosa Torre Eiffel mentre le stelle si divertivano a giocare a nascondino e ad apparire una volta scoperte dalle nuvole. Marinette socchiuse le palpebre. Un’altra giornata era finita. Era esausta, ma nonostante ciò non riusciva a prendere per niente sonno. “Le principesse non dovrebbero essere a dormire già da un pezzo?” “E i gatti neri non dovrebbero essere meno invadenti?” Chat Noir si accucciò sul davanzale della terrazza. Colse una rosa bianca dalla piccola serra e la porse alla ragazza che ne inspirò il profumo delicato. “Come mai sei qui?” chiese la giovane mentre scompigliava i capelli biondi del ragazzo, più di quello che erano già. Le facevano piacere le sue visite, ma non voleva che compromettesse il suo lavoro da supereroe, solo per lei. Aveva il viso stanco, assonnato, sciupato. Perfino i suoi occhi verdi smeraldo non erano brillanti come lo erano sempre stati. “Beh, perché mi fa sentire bene stare con te. Anche se fosse solo un millesimo di secondo.” Rispose lui, facendo un buffetto sulla testa alla ragazza dai capelli corvini. Lei gli fece un sorriso. “Ora dimmi. Questo viso spento ha un motivo per essere così? Non ti riconosco, Chat.” domandò Marinette perplessa, vedendo il suo sguardo rivolto – inemotivo – verso la cattedrale di Notre Dame. “Non è niente. Semplicemente non voglio fare tragedia di una piccola ferita finché essa non si sarà espansa a dovere.” “Perché continuare a farsi del male quando tutto può essere curato?” “Non tutto si cura. Perfino le ferite più piccole a volte possono bruciare. Sta a te decidere se curarle o meno. La debolezza è il migliore alleato di esse. Se sei debole, sarai incapace di sopportare il dolore. Ho perso mia madre qualche anno fa e ne patisco lo spasimo ogni giorno di più. Da quando lei non c’è, mio padre è cambiato. Mi sento invisibile ai suoi occhi, a volte ignorato. Sempre rinchiuso in casa, chissà a far cosa, mentre mi costringe ad indossare una maschera che non sono. Vuole che io sia perfetto.” Chat si interruppe un secondo e sorrise grigio. “Che cosa sciocca da dire. La perfezione non esiste.” “Una maschera, dici?” domandò la corvina incuriosita. “Sì, una maschera. Il colmo della falsità, della finzione. Si dice che ella si dissolva sola-mente quando ne indossi una vera, finendo per essere finalmente te stesso, semplicemente ciò che realmente sei.” Egli suonò il piccolo campanello che indossava, abbozzando finalmente un sorriso. “E funziona.” Marinette fece roteare il gambo della rosa fra le sue dita, fissando con gli occhi lucidi il fiore, assorta dai pensieri. Chat Noir è sempre così allegro e di buon umore che è difficile per lei realizzare quanto soffia la solitudine in realtà. Avrebbe voluto stringerlo a sé, accarezzargli i capelli biondi per rassicurarlo e magari…fargli sapere quanto lei lo amava. “Per te cos’è una maschera, principessa?” chiese il ragazzo-gatto interrompendo il momento di riflessione di Marinette. “Hm, una maschera… un modo per nascondersi. Per intrappolare le nostre vere emozioni in una rete per farfalle. Se le farfalle non possono volare muoiono. Come le nostre emozioni. Devi rompere quella rete, per cominciare a vivere, senza limiti. Non importa quanto può essere dura. Stop ai sorrisi di pura finzione imposti dalla maschera. Non sia-mo attori delle nostre vite.” I suoi occhi color oceano bruciavano. Il giovane le asciugò delicatamente con i palmi delle dita alcune lacrime salate, che erano scese dal suo viso. “Non c’è motivo di piangere per queste cose, principessa.” mormorò Chat spostandole la frangetta dalla fronte, lasciandoci un dolce bacio. “Un giorno smetterò di recitare.” affermò lui accogliendola fra le sue braccia, avvici-nandola a sé. Una leggera brezza li coccolò accompagnata dalle campane di Note Dame che segnavano la mezza notte. Marmette fu la prima a sciogliere l’abbraccio, rivolgendo un sorriso timido al ragazzo, con tanto di rossore sulle guance perlacee. I suoi occhi azzurri brillavano così tanto da far invidia alle stelle. Il suo sguardo era così incantevole e ammaliante da far provare gelosia alla luna, che invadeva il cielo notturno. Il suo sorriso… sì, il suo sorriso. Così indescrivibile. Non voleva nemmeno perdere un solo secondo per cercare un aggettivo degno di descriverlo, voleva solo viverlo. Il cuore sembrava non rispondere più ai suoi comandi. Continuava a ordinargli mentalmente di rallentare, ma era inutile, un tentativo perso. Era ormai schiavo della sua principessa. L’anello che Chat indossava al dito iniziò a lampeggiare: il ragazzo cominciò ad agitarsi inevitabilmente, visto che segnava la trasformazione e sarebbe ritornato semplicemente Adrien, etichettato come il ragazzo apparentemente perfetto. “No, no, no, no, no!” gridò il biondo, portandosi violentemente le mani fra i capelli, disperato. La ragazza cominciò a dissolversi alla sua vista, diventando invisibile, come tutto ciò che lo circondava intorno. Chat si guardò intorno attonito mentre un fascio di luce accecante lo fece tornare alla pura realtà. Si ritrovò nella sua camera da letto, nelle sue vesti civili. Le coperte erano totalmente disfate e il cuscino si trovava sul fondo del letto. Si passò una mano fra i capelli color grano, e tirò su un sospiro. Afferrò il cellulare che si trovava sul comodino e guardò l’orario: le due e quattordici di notte. “Sapevo che questo mi avrebbe disturbato il sonno.” mormorò spostandosi la frangia sopra la fronte. “…Sembrava tutto così reale.” Egli si lasciò cadere supino sul materasso. “Proprio come le maschere.” affermò. Chiuse gli occhi. “Era troppo perfetto per essere vero.”
DENISE ALESSANDRA SACCO
Istituto Olivetti
Classe 3a
Commento:
«È un azzardo stabilire la fonte d’ispirazione, ma il clima e lo scenario iniziale di questo breve racconto ricordano qualche passaggio de: “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov. L’atmosfera della notte, quasi sospesa e rarefatta, la comparsa del protagonista sotto mentite spoglie, il buio e le fattezze di un gatto nero: tutto dispone il lettore alla curiosità, al voler inseguire e comprendere quanto potrà accadere fra le righe. È la visita notturna di un innamorato; forse un sogno rivelatore, un messaggio inconscio. Il protagonista sembra essere un ospite abituale della ragazza, nella cui stanza si introduce. Racconta di sé, attraverso la sua maschera di supereroe notturno, un’identità che sembra quasi il simbolo della precarietà degli atteggiamenti, il senso dell’apparenza che a volte la vita ci forza ad indossare. Le parole scorrono, ben amministrate, e il finale arriva quasi come una scossa. Tutto non è che un sogno. A certe età – forse a tutte – comunque sognare è bello, necessario e sollevante. (Roberto Mosca)».
Paura. Un sentimento che, come un avvoltoio affamato, la seguiva in silenzio, sempre presente seppur invisibile, in attesa costante del momento giusto per conficcare nel suo tenero e giovane cuore gli artigli affilati, stringendo sempre più forte e scendendo sempre più a fondo, straziandolo, lasciandolo inerte e completamente incapace di funzionare. La desolazione era troppa per essere sopportata, la ferita troppo profonda per essere curata e la paura: una nemica troppo forte per essere combattuta.Questo era quello che provava da quando aveva scoperto. Scoperto l’inimmaginabile: l’uomo che per diciassette anni l’aveva cresciuta non era il suo vero padre e l’identità di chi l’aveva concepita rimaneva un mistero velato di bugie. In un attimo i cancelli di quel meraviglioso giardino chiamato infanzia le avevano sbarrato le porte, catapultandola in un mondo sconosciuto, sola e senza identità, spoglia persino di quella speranza mista a purezza che solo i bambini sanno conservare; e lei non era più una bambina, anzi, non era più nessuno. La sua intera esistenza era stata un’eterna bugia e il solo fatto che esistesse era un errore; nulla di più. Si sentiva nuda, ora che tutto quello in cui credeva era svanito lasciandosi dietro un incolmabile vuoto, priva di tutto a parte se stessa, contro l’immensità del nuovo mondo che la attendeva, e si sa che solo se stessi non è mai abbastanza. In particolar modo quando non si riesce più neanche a vedersi dentro. Era seduta sul letto, di fronte allo specchio, alla ricerca di qualcosa che non scorgeva più. Fissava intensamente la sua immagine riflessa vedendo soltanto una ragazza di diciassette anni, sperduta e disorientata, troppo magra e pallida, dal viso scarno e gli occhi infossati in profonde occhiaie nere. Uguale eppure così diversa. I lunghi capelli mossi che le ricadevano sulle spalle erano gli stessi, i lineamenti quelli di sempre e gli occhi mantenevano lo stesso color nocciola, erano tristi però, vuoti. Chiunque avrebbe potuto scorgerci tutta la desolazione che vi aleggiava dentro. Si guardò con maggior intensità, alla ricerca disperata di un piccolo segnale di speranza, senza però trovarlo; spaventata allora chiuse le palpebre e la consapevolezza di non avere più un’identità le piombò addosso facendola crollare distesa sul morbido piumone che ricopriva il letto e che si ritrasse sotto il suo peso invadendola. Persino il suo corpo sembrava non appartenergli più, non lo sentiva suo, le andava stretto, era solo uno sporco involucro fatto di nulla che si reggeva in piedi per mi-racolo. “Somiglio ad un’ombra” pensò “l’impronta sbiadita di ciò che sono stata”. Il letto si trovava al centro della stanza, una camera color indaco che un tempo adorava e che ora invece le pareva soltanto una scatola traboccante di ricordi pronti a saltar fuori, per schiacciarla. Un vano contenitore ormai troppo grande per il vuoto che la divorava dall’interno. Una cornice di foto seguiva la sagoma dello specchio, da quelle più vecchie che la ritraevano ancora in fasce, a quelle più recenti: su un cavallo, con le amiche, al mare o con un libro tra le mani. Ogni tanto tra una fotografia e l’altra vi era uno spazio vuoto, un tempo occupato da qualche scatto che faceva emergere emozioni troppo dolorose da sopportare e che ora si ritrovava spezzettato nel cestino. Lontano dagli occhi e dal cuore. Lentamente si era alzata, per poi avvicinarsi allo specchio e delicatamente aveva fatto scorrere le dita affusolate sopra quella grande cornice composta da attimi di vita ormai volati lontano ma che erano stati fermati, immortalati e resi eterni da un click; così che non potessero andare persi nella caoticità di una realtà troppo distratta per apprezzare le piccole cose. Le stava sfiorando tutte, passandole ad una ad una, fino a quando la sua attenzio-ne non venne catturata da uno scatto in particolare. Lo prese tra le mani e lo portò vicino al petto, delicatamente, quasi come se fosse la cosa più fragile e preziosa al mondo. Era stata scattata l’anno prima da colui che aveva creduto essere suo padre: sullo sfondo si diramava una fitta boscaglia che rendeva l’atmosfera magica e in primo piano vi era una ragazza, con il corpo leggermente piegato all’indietro, intenta a ridere. Ridevano gli occhi, rideva la bocca, rideva il corpo. Dopo averla osservata a lungo la voltò e si perse nella grandezza delle indelebili parole d’amore scritte sul retro e che ora assumevano tutto un altro significato: “Cara”… Lunghi capelli castani, tanti quanti sono i tuoi sogni. Occhi grandi, famelici di divorare quello che il mondo ha di bello da offrire. Sguardo vivo e intenso. E un sorriso che illumina solo con la sua comparsa. Ecco cosa sei per me: vita, forza, speranza. Non dimenticare mai chi sei. Tuo da sempre. Papà.” Parole, affilate, che pungono nel vivo. Sarebbe mai tornata a vedersi così?
GINEVRA MARGOT ALLIEVI
Liceo Scientifico E. Majorana
Classe 4a
Commento:
«Una scoperta esistenziale inaspettata diventa il dramma personale di un’adolescente, con la perdita delle certezze dell’infanzia. Un sentimento di angoscia la invade, con la paura di non poter più essere se stessa. Lo specchio le rimanda “l’impronta sbiadita” di un sé diventato un’ombra. Il possibile recupero dell’identità personale è espresso in forma di domanda e si lega a una rielaborazione, a una speranza di vita nuova, che potrà forse avvenire grazie alla dedica che accompagna la fotografia della sua immagine felice. Il racconto rivela sicurezza di scrittura, conoscenza della lingua, sebbene con qualche espressione insistita. (Maria Grazia Cislaghi)».
Guidava piano, pianissimo, il limite di velocità era di cinquanta chilometri orari, ma lei non si azzardava a superare i quaranta. Quelle rare macchine che percorrevano la sua stessa strada la sorpassavano urlando insulti o suonando all’impazzata i clacson. Loro non potevano capire e lei serbava rancore verso troppe persone, non c’era spazio per altra rabbia, quindi li perdonò. Finalmente aveva raggiunto la campagna. Una nebbiolina leggera aleggiava sopra i campi, secchi e aridi, e avvolgeva i rari casolari, ancora dormienti. L’orologio digitale sul cruscotto le diceva che non era ancora l’alba, ma per quanto ne sapeva lei quel cielo così grigio poteva anche celare un sole splendente. “Meglio così, l’universo mi sta rendendo le cose più facili del previsto. Un improvviso attacco di claustrofobia la fece boccheggiare: abbassò tutti i finestrini. L’aria gelida di dicembre, come un’onda, si riversò nell’abitacolo, pungendole il viso e le gambe nude, andando a stanare fino al più piccolo residuo di calore rimasto nella vettura, eliminandolo. Rabbrividì. Rallentò scendendo ai trenta, aveva quasi raggiunto la sua destinazione ma non era ancora pronta a lasciarsi alle spalle quel paesaggio, non ne era ancora sazia. Decise di accostare e farsi l’ultimo tratto a piedi. Lasciò lì l’auto, con le chiavi inserite e i vetri abbassati: uno scheletro metallico dagli occhi cavi che la osservava allontanarsi, indifferente. “Sei sleale, dopo tutti questi anni, neanche tu… neanche tu…” rassegnata le voltò le spalle. Si inoltrò in una fitta boscaglia dal ricco sottobosco. La sottile vestaglia di seta color petrolio, lunga fino al ginocchio, si lacerò in più punti, mentre profondi graffi si formavano sulla sua pelle, resa candida dalla prolungata reclusione in casa. Sentiva le foglie e i legnetti scricchiolare, per poi frantumarsi sotto i suoi piedi nudi. Il sibilo del vento tra le fronde nude e spoglie la fece sobbalzare. In un attimo il panico la sommerse, soffocandola. Si voltò con gli occhi sgranati, non vedeva nulla, solo nebbia: “Aspetta, sono forse occhi quelli?”. Per tutta risposta la raggiunsero un nuovo sibilo e lo spezzarsi di un ramo. Si voltò lanciandosi in una corsa disperata, alla cieca. C’era qualcuno? Chil’aveva raggiunta? Chi mai poteva averla trovata? Dopo pochi ma interminabili minuti percepì un cambiamento nel terreno, ora era morbido, umido, quasi fangoso: “Ci siamo, finalmente!”. Non aveva più bisogno di scappare, così si fermò, ricominciando a camminare. Davanti a lei si aprì una grande radura che circondava un laghetto ghiacciato, dominato da un piccolo ponticello alla giapponese, in metallo, verniciato di verde. Eccolo: il Cocito. Quel lugubre sito prendeva il suo pittoresco nome proprio dal lago infernale descritto da Dante; si diceva fosse un posto maledetto, visitato sovente da anime in pena, e per questo era temuto ed evitato un po’ da tutti i superstiziosi della zona. La verità era che nei pressi di quello specchio d’acqua, nel corso dei secoli, avevano trovato la morte diverse persone. Alcuni contadini, che, imprudentemente, si erano addentrati in quella che una volta era una grande palude, poveri mendicanti, assiderati nelle lunghe notti d’inverno, o ancora viaggiatori, colti di sorpresa dai briganti. Si narrava persino di una nobile baronessa, violata prima del matrimonio da un membro della casata rivale e ripudiata dal futuro sposo, che aveva deciso di affogarsi per fuggire dalla sua triste esistenza. La capiva, la invidiava, aveva trovato la pace, lei invece era ancora qui. Per fortuna, molto presto, si sarebbe potuta lasciare tutto alle spalle. Sorrise tra sé e sé. Il sorriso di chi è rassegnato al proprio destino, del malato incurabile, terminale, che attende la morte come una liberazione e lo rincuora sapere che sta per raggiungere i suoi famigliari, spirati prima di lui. Si sfilò velocemente ciò che rimaneva della vestaglia, lasciandola cadere, noncurante, a terra. Ormai nuda si incamminò verso il ponticello. L’adrenalina l’aveva abbandonata e il suo corpo reagiva al gelo tremando violentemente. Stava velocemente perdendo la sensibilità di mani e piedi. Raggiunto il punto più alto salì in equilibrio sul parapetto, aprì le braccia, come se stesse per prendere il volo, si guardò intorno un’ultima volta per poi buttarsi. La sua mente, i suoi pensieri tacevano, cos’altro potevano dire? Era finita. Lo spesso strato di ghiaccio si ruppe e lei fu libera di affondare. Fu ciò che vide sotto a confonderla. Decine e decine di volti smunti e pallidi la fissavano. C’erano tutti, i contadini, i mendicanti, i viaggiatori, con i loro sguardi sembravano accusarla. Rinunciava alla vita, ciò che a loro era stata strappata, pur desiderandola arden-temente. “Voi non potete capire!”, urlò, sprigionando una miriade di bollicine che risalirono in superficie. “Non avete subito la mia perdita, non avete idea di cosa si provi!”. Ormai non si sentiva più né gambe né braccia. Quei volti scomparvero, rimase solo la baronessa: “Neanche tu hai il diritto di giudicarmi, come me sei fuggita, non potevi più sopportare il peso della tua vita!”. Lo spirito non si mosse, non un muscolo del suo viso si contrasse, ma la risposta giunse forte e chiara, da un mondo che non era più il suo: “E ora me ne pentirò per tutta l’eternità. Non si può fuggire ai propri problemi, ti inseguono ovunque tu vada. Vuoi davvero morire e lasciarli in sospeso? Sei giovane, ragazza, e la tua vita è una sola, non lasciarla ai pesci.” Scomparve. L’aria incominciava a mancarle, ma ormai era completamente paralizzata, il fondale scuro a trascinava a sé mentre la luce era sempre più lontana. Alza una mano verso l’alto, voleva vivere: “Aiuto!” Aveva bisogno di aria, i polmoni le si aprirono, ma ad entrare fu soltanto acqua, tutto divenne nero. Si risvegliò, nuda su quel ponte, tossendo forsennata, ma completamente asciutta e senza una goccia d’acqua a complicarle la respirazione. Più sconvolta che mai, riprese la sua vestaglia e fuggì via, tornando alla sua vita. Quando, qualche settimana dopo, ebbe il coraggio di tornare in quei luoghi, non vi trovò nulla e quando chiese in giro, tutti le fecero un gran sorriso, il sorriso di chi sa bene di cosa si sta parlando, augurandole una buona giornata.
LIDIA BERTOLOTTI
Liceo Artistico L. Fontana
Classe 5a
Commento:
« “Una corsa in auto, un paesaggio fasciato dalla nebbia. Chi scrive sembra voler costruire una certa aspettativa, conducendo il lettore nello stesso viaggio della protagonista. Una decisione ineluttabile sembra governare la scena, quasi che tutto fosse ormai deciso, immutabile. Forse perduto. L’automobile procede lentamente, addirittura rallenta, come a sospendere la corsa dei pensieri di chi sta leggendo. Poi la ragazza abbandona l’abitacolo per introdursi a piedi in una boscaglia. Prende inizio un percorso ricco di simbologia, quasi psicoanalitico, oscillante.Alla fine ecco la meta: una radura, e qui anche le parole sembrano voler rallentare ulteriormente gli eventi. Sta per accadere qualcosa. Il posto raggiunto dalla protagonista è un luogo che la leggenda considera maledetto, e che lei stessa ha raggiunto per entrarne in simbiosi, per compiere un gesto fatale. La drammatica fine sembra ormai certa, poi accade qualcosa: nient’altro che il simbolo di un cambio di rotta, apparentemente casuale, ma che diventa risolutivo. Una bella idea, ben strutturata. Il finale poteva essere meglio condotto, ma ci sarà tempo – ed altre prove – per aggiustare il tiro. (Roberto Mosca) ».