In una grande e luccicante pentola,
di acqua calda colma,
un fusillo nuotava leggiadro;
cotto dalla stanchezza
si adagiò su un letto
caldo e succoso
di tenero pomodoro.
Dal dolce dormire
fu svegliato
da una candida
nevicata di formaggio.
Preso dallo spavento
come una molla
in un bianco piatto saltò
ma d’improvviso
una dorata forchetta
li infilzò.
Fu così che il pancino di un
bimbo allietò.
MATILDE VERGA
Scuola M. Paolo VI
Classe 2^
Commento:
«L’Ode al fusillo è una simpatica prova poetica, che accoglie meravigliosamente la lezione di Neruda e la rielabora con piglio originale e arguzia delle scelte lessicali. Si è desiderato, infatti, premiare la scelta inusuale del soggetto poetico – un fusillo! – quale testimonianza del fatto che si può fare poesia su tutto. Non esiste qualcosa degno di essere messo in poesia e qualcosa no; quanto piuttosto, esiste la capacità di avere uno sguardo poetico con cui osservare la realtà, quasi come si avesse un occhio di bue capace di illuminare un dettaglio piccolo del quotidiano, rendendolo protagonista della scena. Si può considerare, inoltre, particolarmente felice l’ambiguità su cui gioca l’espressione “cotto dalla stanchezza”, che nel conte- sto risulta di una brillante efficacia. Il giovane poeta riesce a evocare con le parole un’immagine nitida, visualizzabile quasi alla stregua di uno spot pubblicitario; una poesia, insomma, capace di stuzzicare il lettore. (Alice Serrao)».
Il cielo è un essere strano
Non ha una forma precisa
H cielo è un essere mitologico
Nessuno sa quando e come è nato
Il cielo è un essere permaloso
Appena gli fai un appunto sbotta
di pioggia
Il cielo è un essere chiuso
Capito e amato da poche persone
II cielo è un essere colorato
Pieno di sfumature dell’anima
Il cielo è un essere romantico
Sa amarti e confortarti nei
momenti più bui
Il cielo è un essere trasparente
Che rivela tutte le sue emozioni
Il cielo è un essere unico
Che sarà sempre lì a guardarti con
amore.
MATTEO ZANDONADI
I.C. Europa Unita L .Da Vinci – Arese
Classe 3^
Commento:
«Che emozione mi prende nelle parole della poesia “IL CIELO”: “Sarà sempre lì a guardarti con amore!” Questo immenso spazio che ci sovrasta è qualcosa di divino, di infinito che riempie l’anima di meraviglioso e di timore! Nel cielo stellato trovo, come scrisse Kant “la legge morale che è dentro in me”, trovo nella sua luce, la poesia e la dimensione di uomo, di riflessione e di pausa per trovare la gioia e la speranza per ripartire ogni nuovo giorno.».
Non c’è colore della natura
che un pittore sappia dipingere
esattamente,
non c’è suono della foresta
che un musicista sappia riprodurre
sapientemente,
non c’è profumo dei fiori
che un alchimista sappia duplicare
magistralmente.
In natura ogni suono, colore e
profumo sono unici, magici e
inconfondibili…
Il cinguettio di un uccellino nei
silenzioso mattino,
il fruscio delle foglie accarezzate
dal vento,
lo sciabordio delle onde che lambiscono
la riva del mare,
il fragore di una cascata che
irrompe nelle acque del fiume,
la magia di un caldo tramonto
carico di emozioni e colori,
I paesaggi autunnali colmi di
mille sfumature variopinte,
il cielo terso nelle calde giornate
estive,
i nitidi colori invernali tra il blu
del cielo ed il bianco paesaggio
innevato,
Il fresco profumo dei fiori di
pesco in primavera
L’aria pura di mare nella brezza
dell’alba
L’aroma del nettare di un dolce
frutto estivo
L’intensa fragranza di un campo
fiorito di lavanda.
Ed in questa variopinta e ricca
armonia non posso dimenticar
altri doni quali la luna e le stelle
che riempiono magicamente la
notte.
Non ci accorgiamo di quanto è
meraviglioso il mondo
Troppo impegnati a rincorrere
solo ciò che è effìmero e finto
Ci è stato affidato come un dono
prezioso
Ma siamo troppo egoisti per
viverlo e sentirlo veramente
nostro!!!
MARTINA ALLIEVI
I.C.Europa Unita L .DaVinci -Arese
Classe 3
Commento:
« La poesia esprime la gratitudine di un giovane che scopre e brevemente descrive le diverse meraviglie che la natura ci offre e che nessun artista e nessun artigiano, per quanto grandi, saranno
mai in grado di riprodurre in colori, suoni o alchimie. Tuttavia molti di noi spesso non si accorgono di questo mondo meraviglioso e costruiscono simulacri di bellezza frutto solo del nostro egoismo. La poesia riesce ad esprimere, con semplicità e chiarezza, un messaggio di indubbio valore morale e di profondo rispetto per il creato. (Ombretta Degli Incerti)».
Giro per casa
e non sono mai sola,
guardo nello specchio
c’è qualcuno che mi consola.
Quattro sono le mani,
unite da sempre
e quattro gli occhi castani,
che guardano lontano.
Io e mia sorella, la mia
anima gemella.
Due corpi, due pensieri
giovani e avventurieri.
Due i cuori monelli,
colmi di indovinelli
che capire non puoi
se non stai con noi.
Io sono te
e tu sei me,
divise ma unite
nelle nostre vite.
STEFANIA SPITALE
I.C. De Andrè D’Este
Classe 2^
Commento:
« Il componimento si caratterizza per la semplicità e la sincerità dei sentimenti descritti e soprattutto sentiti e partecipati: “… quattro gli occhi castani / che guardano lontano”. Immagine dominante è lo specchio che – simbolo di verità e illusione – consente una presenza certa e confortante. L’autrice percepisce di “non sentirsi mai sola” e ciò le permette di scoprire fiducia, serenità, sicurezza, ma anche tanta stima di sè. Emerge, altresì, una vera fusione di pensieri e di cuori che esalta il reciproco affetto di due anime gemelle “divise ma unite”. (Hugo Salvatore Esposito)».
Tagliamo queste radici per farne
crescere nuove,
forse per cancellare il passato e
dar vita ad un nuovo presente.
Ci rifugiamo nei testi e nei suoni,
forse per sentirci capiti.
Vediamo i tagli in modo diverso,
forse per la nostra insicurezza.
Abbiamo anime fragili e tormentate
da pensieri,
forse spesso troncate da uno stormo
di illusioni create dai desideri.
Siamo perseguitati dalla voglia di
aver qualcuno vicino,
forse per non sentirci soli.
Vogliamo vedere una luce nuova,
forse per sentirci vivi.
La verità è che noi siamo fatti
così…
Non vogliamo qualcuno che spezzi
le nostre ali,
vogliamo qualcuno che creda in
noi e che ci spinga a volare.
DENISE ALESSANDRA SACCO
IT Olivetti
Classe 2°
Commento:
« Il titolo della poesia è, per me, una sottile provocazione, perché ciò che il testo ci mostra è l’anima nuda dei giovani d’oggi, non fragili, ma sicuramente perplessi per come la società si muove e si pone nei loro confronti. Ciò che leggiamo è una disamina profonda, non una ricerca di identità. I versi, per lo più distici in struttura libera, sono accattivanti e fanno riflettere sia per l’analisi dei problemi relativi all’età giovanile che per la risposta che ne consegue, incompleta e colma di dubbi. Il poeta affronta i temi che riguardano i giovani, essendolo lui stesso, in questo periodo particolare. Un periodo in cui chi dovrebbe contare su di loro e valorizzarli, li ignora e non fa nulla, anzi, si scaglia loro contro con critiche spesso illogiche e corrosive, dimenticando che il futuro è loro, dei nostri figli. “Non vogliamo qualcuno che spezzi le nostre ali”, ammonisce il poeta. Qui, dobbiamo raccoglierci un attimo per riflettere, perché questa richiesta è una stilettata che ci deve svegliare, è una stilettata che ci fa capire che i nostri ragazzi sono più maturi di quanto pensiamo.(Adriano Molteni)».
Vedo una folla silenziosa
riempire le vie:
persone indistinte
come i colori dell’alba,
spettatori invisibili
di una vita incerta.
Vedo linee che tracciano
percorsi falsi,
rincorrendo pensieri effimeri
come le loro maschere,
andando verso
un orizzonte trasparente.
Vedo sguardi nebbiosi
di uomini tristi,
con tende pesanti
chiuse sul loro cuore.
ARIANNA TENTI
Liceo Sc. E. Majorana
Classe 2°
Commento:
«L’indecisione di dare un titolo al componimento pone subito in rilievo il turbamento, lo smarrimento del poeta che osserva ciò che lo circonda con la sua indiscussa sensibilità. Ma, cosa è costretto a vedere? Ebbene, in un mondo diseducato e incattivito, individualista, aggressivo e arrogante, il poeta guarda attentamente quella “… folla silenziosa / riempire le vie”, dove persone indistinte senza speranza indossano maschere vere: “uomini tristi / con tende pesanti / chiuse sul loro cuore”. La poesia credo voglia denunciare l’incomunicabilità, la solitudine, la reale sofferenza, la bieca indifferenza che serpeggiano nelle strade che affolliamo. (Hugo Salvatore Esposito)».
Una semplice musica
si propaga
nella mia mente
come inchiostro nell’acqua.
Macchia il pensiero,
gliene cambia il colore
e,
come ghiaccio,
si consolida.
Le idee sono particelle di nuvole,
e
come tali
sono libere nell’aria…
Poi si fanno catturare dal temporale
che le straccia, le sfrutta, le allunga
e
le trasforma
nel suo concerto
purificatore.
FRANCESCA MAZZOLENI
Liceo Sc. E. Majorana
Classe 1°
Commento:
«La musica, da sempre, ha per gli uomini una funzione catartica, grazie alla capacità di penetrare lentamente nella nostra anima, pervasiva ed inquietante per poi consolidarsi con il passare del tempo. Per raccontare questa verità si può scrivere un saggio, oppure ricorrere ad una immagine significativa ed originale come quella dell’ “inchiostro nell’acqua”, come fa questa poesia. Il giovane poeta istituisce con questa splendida immagine un parallelo con la natura delle nostre idee, che liberamente si espandono e si combinano, per poi essere trasformate e purificate in una tensione ideale che le trasfigura . Una felice similitudine che si esprime attraverso versi brevi, congiunzioni sospese e una catarsi finale che riporta alla musica, a un “concerto purificatore”, che rimane forte nella memoria del lettore. (Ombretta Degli Incerti)».
Una piuma
di rondine sulla scogliera
e, in lontananza,
sagome di uccelli in viaggio
verso terre lontane
o di ritorno al loro nido.
Davanti agli scogli
sospiri dì Eolo s’infrangono
sulle bianche vesti d’un uomo
senza catene:
un animo sollevato, ricco, rinato.
Sul lido marino
meravigliose conchiglie
dai colori perlacei
rendono più luminoso il panorama.
Altrove
il disperato pianto d’un angelo
incatenato al suolo
e il sangue che fuoriesce dalla
schiena…
Urla di rimpianto
e d’ossessione
verso la perduta libertà.
MARIA MICCICHE’
Liceo Sc. E. Majorana
Classe 2°
Commento:
«E’ una riflessione importante che ci offre il nostro vivere, ora luminosa e felice, ora in un “disperato pianto d’un Angelo incatenato al suolo…” L’agghiacciante urlo della realtà e della ”libertà negata”, ogni tanto sofferta da milioni di persone disperate alla ricerca di speranza, serve per spezzare le catene “dell’Angelo incatenato”, per trovare in questa immensità il suo spazio dove possano vivere nel respiro e in una visione umana e libera, nel rispetto del pensiero e nello spazio del Creato. Non facciamo che la libertà sia come la vita della falena che si ferma all’avvicinarsi della luce…(Piero Airaghi)».
Aggrappata
a un unico
fievole
barlume di speranza
in questa vita
avara di luce,
falsa di promesse
di libertà illusorie
l’umanità,
attrice di se stessa,
si strugge.
Imprigionata
nelle tiranniche catene
di questa triste realtà
la vana volontà
si dilegua inesorabilmente
nell’oscurità
di questo amaro presente,
maschera d’ipocrisia
che strazia il cuore,
vestigia di schiavitù e di sogni
obliati.
SILVIA NOVELLI
Liceo Sc. Falcone eBorsellino
Classe 5°
Commento:
«Due periodi o strofe crude contengono una forte denuncia del momento che attualmente viviamo. Un momento che vede l’umanità consumarsi a causa di false promesse e del furto del suo futuro; e questo momento di vita è reso ancor più amaro dall’ipocrisia dilagante che dilania il cuore, ritenuto da sempre la sede più credibile, più dolce e sensibile dell’animo umano, paventando indizi gravi di una umanità portata alla schiavitù dal pensiero unico e senza più un futuro. E’ la voce di un giovane studente che grida la sua ribellione per salvare la libertà di essere uomo, quindi parte attiva della società. E’ un giovane che si aggrappa ad una ultima, lieve, flebile speranza per trovare il modo di liberarsi di queste forze, non più tanto oscure, del male. E’ un giovane che ha ancora speranza, voglia di lottare e di soffrire, quindi: un poeta. (Adriano Molteni)».
Sii tu, anima pellegrina,
leggera fra le grandi nubi,
colei che danza tra i cieli e i cuori
di questi viaggiatori, cosi persi.
Ti vedo mentre plani sui tetti
delle case fredde e grigie,
mentre appollaiata cerchi del
calore,
osservi la città on gli occhi di un
bambino.
E quando spicchi il volo
scompari oltre le stelle del cielo
tra i limiti della mia anima
e le nuvole scarlatte del tramonto.
Mi lasci solo con il tuo ricordo,
libera nomade delle stelle.
Sii tu, rondine nera,
leggera nel mio cuore d’inverno.
ANDREA PIRRERA
Liceo Art. L. Fontana
Classe 3°
Commento:
«Il giovane poeta sicuramente ha una buona penna, perché ha dimostrato in tutte le prove poetiche di essere uno che con le parole vola bene. In particolare, i versi di questa poesia delineano il volo di una rondine, libera nel cielo, e sembrano volerne riprodurre la coreografia delle ali che si aprono e spiegano toccando i tetti e le nubi. È una poesia che trae ispirazione dall’immagine. Ma l’immagine concretizza un’idea, la metafora dell’anima e della libertà dello spirito che cerca slancio e tenta di elevarsi in alto. Solo da qui, dall’alto, si può avere un punto di vista privilegiato da cui osservare il mondo e la città, che appare ingrigita e povera di tutte quelle passioni del cuore, che la rondine invece incarna. Questo testo conserva, infine, spunti letterari tipici della poesia Due-Trecentesca e di Caproni, ma anche tutta l’immediatezza dei sogni che desideriamo spicchino sempre verso orizzonti nuovi. (Alice Serrao)».
Quando la Luna rimprovera il Sole
sbuffando gelidi venti di isteria
e i cieli si contorcono tremanti
all’ombra
della sensibilità latente
in cui commosso il Sole si sgretola
fino a detergersi in quei bagliori
che sì dicono tramonti,
qui ogni giorno è un funerale.
Qui ogni giorno è un funerale
mentre i complessi di inferiorità
evocano dolci melodie
fra mercanzie di sofismi
e sospiri di solitudine
e i fiori della speranza decadono
aridi come pietre.
Nel tedio buio ardo
come una labile candela
laddove uno squarcio di sorriso
ne vale una scintilla, una fiamma,
ed un’emozione una lacrima di cera,
in quelle palpebre mai sazie
che fondono sensibilità
e alla sensibilità si fondono
prima di annientarsi
in quei taciti bagliori
adesso assopiti.
I cieli sono ora tetri
e cenere è lo stoppino.
La mia anima ha arso fin troppo
annichilita o qualsiasi cosa sia;
ma ogni volta che muoio
rinasco in poesia.
GIORGIO CUCONATO
Liceo Sc. Falcone e Borsellino
Classe 5°
Commento:
«La poesia è strutturata sulla metafora della candela che diviene metafora della vita e l’autore, con un velato pessimismo, costruisce una fitta tessitura di temi e immagini che sono elaborati e acquisiscono sfumature e significati diversi. La poesia accentua quel tremolio del “mal di vivere” (Montale) che, “nel tedio buio”, è esplicitato dal verso “i cieli sono ora tetri / e cenere è lo stoppino”. La labile candela, ahimè, si esaurisce, procura rilevanti sensazioni e le gocce bollenti e cadenti come pianto, per il poeta, diventano “lacrime di cera / in quelle palpebre mai sazie …”: visione, questa, che potrebbe apparire sconfortante, forse, naturale e senza salvezza, ma il poeta trova energia e forza nella parola poetica, nella poesia …(Hugo Salvatore Esposito)».
Per settimane ho navigato
in cerca di una nuova spiaggia
promessa,
finché la tempesta non mi ha portato
sopra a una lacrima di terra emersa.
Ero partito con la mia nave,
stanco di stare nella mia terra,
per non mangiare il solito pane
e per scappare dalla guerra.
E su quest’isola l’acqua è pura,
il pesce abbonda e sotto le fronde
cerco ristoro dalla calura,
accarezzato dalle onde.
E quando il sole scende nel mare,
accanto al fuoco che scalda la
pelle,
un letto di sabbia per riposare
e per sognare un letto di stelle.
E quando la notte stende il suo
velo
vola lontano il mio pensiero,
alla mia casa sotto quel cielo
dove non sanno che cosa sia
essere libero per davvero.
GIACOMO BIANCHIN
ITISS. Cannizzaro
Classe 4°
Commento:
«Questa volta, per fortuna, la fuga di liberazione dalla guerra e dalla fame ha avuto un esito felice: la terra cui il naufrago è approdato è ricca, fresca e verde. Finalmente per lui è possibile riposare stando sdraiato sulla sabbia e sognare un letto di stelle. Tuttavia, anche così, proprio quando il tepore della tranquillità conquistata lo avvolge, il pensiero non può fare a meno di andare a quelli che sono rimasti laggiù, a quelli che sono ancora prigionieri della violenza subita ogni giorno. E’ una poesia matura che, attraverso versi senza sussulti e riprese naturali, è capace di andare oltre gli stereotipi offerti dai media per fare intravedere una realtà profonda: le ragioni e i sentimenti di un fenomeno – l’immigrazione – che inquieta noi europei, ma che assalgono prima di tutti gli “altri”, quelli che scappano e che sono uomini capaci di pensare non solo a se stessi. Una lezione importante per tutti noi…. (Ombretta Degli Incerti)».
C’era una piazza e qualche casa. Probabilmente un giorno non molto lontano pullulava di persone e risate, risate e persone. Una spirale di elementi affini. Ed è proprio lì, su quella piazza di vecchie risate e di persone, che passò una ragazza. Non camminava spedita. Non camminava con calma. Forse non camminava proprio, o era quella la sua impressione. Lei guardava. E basta. Gli occhi spalancati in una perenne espressione di sorpresa, come quelle attrici di film di basso livello che esternano con troppa enfasi le emozioni. Era una ragazza da film di basso livello. Si sedette, al centro della piazza e tirò fuori un quadernino. Prese anche delle matite. Iniziò a disegnare. C’era una piazza e qualche casa. Probabilmente si facevano delle feste in quella piazza, feste di persone e risate, di risate e di persone. Una spirale di elementi non sempre affini. Ed è proprio lì, su quella piazza, che passò un vecchio. Teneva in mano un giornale e camminava. Si avvicinò alla ragazza dagli occhi spalancati. Era sorpreso di vedere qualcuno in quella piazza, solitamente non c’era mai nessuno, solo lui e la Torre e il giornale. Disegni? Disse il vecchio. La ragazza non rispose. In effetti non alzò nemmeno lo sguardo dal foglio. Stava tracciando con tratti leggeri i contorni della Torre. Ah, la Torre. Bella vero? Nessuna risposta. Il vecchio si sedette, in silenzio. Era troppo anziano per insegnare le buone maniere a una ragazzina pazza. Perché sei qua, bambina? Lei alzò le spalle. Aspetti qualcuno? Tu invece? Si, tra poco dovrebbe arrivare. Il vecchio però non si guardò attorno, né controllò l’orologio, come si sarebbe aspettata la ragazza. Non fece assolutamente nulla. Tua moglie o la tua amante? L’uomo non si scompose, forse sbiancò leggermente o il suo malandato cuore prese a battere più veloce. Sempre più veloce. C’era una piazza e qualche casa. C’erano le persone e le risate, le risate e le persone. Tanta gente, tantissima. Le bancarelle, la banda, i bambini -oh i bambini-, le giostre, la statua del cavallo, gli alberi, i giocolieri, l’allegria, l’allegria-oh l’allegria- e la Torre. Un ragazzo, lui da ragazzo, stava parlando con una giovane donna con il volto da bambina in mezzo a quella folla -eravamo proprio lì – e teneva in mano un quadro. Madri con i figli, il circo, i carri, i fiori, i balli, le gonne, i cappelli, le corse, la musica, i dolci, i baci, gli abbracci, la gioia, la gioia -oh la gioiae la Torre. I due ragazzi avvolti da un intimo silenzio. Sei pronto? Ho preparato tutto, domani mi vengono a prendere. Ti manderò delle lettere. Mio padre non approverà, e tu lo sai benissimo. Lui abbassò gli occhi sul suo volto. Il volto di una donna non ancora donna e di una bambina non più così tanto bambina. Percorse tutti i centimetri di pelle che aveva amato e che non avrebbe più rivisto, se non molti anni dopo a fianco di una ragazzina pazza. Lo fece lentamente, con un dito. Disegnò una strada dalla fronte, passando per gli occhi, facendo poi a gara con le lacrime che le rigavano le guance, arrivando in fine alla bocca -la bocca delle donne è una magia che nessuno ancora era riuscito a spiegare, diceva mia madre- e lì si fermò. Ti voglio dare una cosa. Lei alzò lo sguardo. Lui prese il quadro e glielo porse. Ti aspetterò qua, al mio ritorno. Sussurrò indicando un punto al centro della tela. Non si parlarono più e lei se ne andò. Le urla, i ballerini, le mani, gli occhi, le risate, lei. le mogli con i mariti, l’amore, l’amore -oh il mio amore- che correva via e la Torre. Sai, non sei obbligato a rispondermi. La ragazzina pazza stracciò il foglio. La sto aspettando. Disse lui ignorandola. Arriverà? Me l’aveva promesso, le avevo regalato un quadro. Non sei troppo vecchio per delle promesse? Lui si alzò, lasciando il giornale per terra. Era stanco di tutte quelle domande. Lei prese un altro foglio, e incominciò per la seconda volta a tratteggiare i contorni della Torre. Vengo qua tutti i giorni ad aspettare. Non arriverà mai? Non arriverà mai. C’era una piazza e qualche casa. Probabilmente c’era stata vita e amore e gioia e allegria in quella piazza, ora c’era soltanto silenzio e quella Torre. Bello questo posto, vero? E pieno di solitudine. Allora ci rivedremo domani, signor? De Chirico. E lui se ne andò. Giorgio de Chirico, ‘La torre rossa’, 1913
LISA SCARDINO
Liceo Classico C. Rebora- Rho
Classe 3^
Commento:
«Il testo, considerata la giovane età di chi lo ha prodotto, è un piccolo capolavoro di tecnica narrativa. Attraverso una strutturazione quasi interamente dialogica, l’autore riesce immediatamente a coinvolgerci nella storia, nel suo sviluppo e (soprattutto) nell’attesa di qualcosa di particolare e sorprendente che – si intuisce – andrà infine ad essere svelato. Il racconto prende spunto da un famoso quadro: La torre rossa, dipinto da Giorgio De Chirico nel 1913. Chi scrive ne dà subito avviso nella rappresentazione iniziale, che altro non è se non il luogo nel quale si svolge la vicenda, di fatto circoscritta al semplice dialogo fra i due protagonisti. La definizione: “C’era una piazza e qualche casa” segna volutamente l’incipit di ogni sezione del racconto reiterandosi per quattro volte, ovvero le micro-suddivisioni sceniche della storia. Questo taglio descrittivo, apparentemente semplice, rende immediatamente partecipi dell’ambiente, accompagnato ogni volta da qualche particolare aggiuntivo: è come se l’autore stesse cercando di rivisitare, con nuovi elementi, le pennellate di De Chirico. Ma la sorpresa che citavamo all’inizio è nascosta nell’attendere, nel motivo che spinge il personaggio maschile a intrecciare il breve dialogo con la ragazza che – proprio di quella piazza – sta disegnando i tratti. Ed è una sorpresa carica di malinconia, semplice nella sua verità, parte inevitabile della condizione umana: la ricerca di qualcuno che non c’è, e che regala tanta melanconica solitudine. Una bella scrittura originale, un talento che speriamo sappia smussare qualche angolo ancora acerbo, per crescere come deve e merita. (Roberto Mosca)».
La fortezza doveva essere imponente e austera, ma ormai aveva perso il suo stesso senso d’essere, entrando in contrasto vivo con quanto racchiudeva: falsari, attentatori, un nobile pazzo, tutti presi dall’apparenza e così poco coinvolti in quello che in fondo avrebbe davvero dovuto rappresentare. Carcerati e carcerieri custodivano il silenzio nella fiducia del loro piccolo numero, anime in pena che si abbeveravano alla fonte del ricordo avido più del loro stesso ricordare, incapaci di uscire e domandarsi cosa stesse succedendo, se adesso Parigi potesse far leva sul loro finto esilio. Le sbarre erano gli arazzi dei muri, i mosaici delle finestre, le volte del soffitto: sottolineavano l’indistricabile labirinto delle celle tutte uguali. Il grigio regnava dittatore, sopprimendo le sfumature che invece restavano floride nelle voci ora schiave, ora padrone. Quello che più si avvertiva, tuttavia, era il vuoto, ovunque, tanto che devastava confini e anfratti; andava oltre il lusso sfarzoso e sfrenato dei nobili e dei privilegi che tanto avevano irritato i passanti, indovini sicuri di quello che non vedevano con gli occhi. I dialoghi erano effimeri e radi, perché sono come i fiori: una volta che ne hai raccolto uno, non puoi più rimetterlo dov’era; l’eufemismo giusto da dire potrebbe essere la litote male interpretata: arte retorica o meno, la guerra fa paura lo stesso. La malinconia degli altri diventava amara, perché escludeva quegli spettatori disillusi da tempo dalia voce di una buona emozione nascosta tra le pieghe dei secoli. Nessuno spazio, per niente ormai: l’attentatore rimpiangeva di essersi perso il sangue del re, i falsari di aver dovuto nascondere la polvere, il nobile pazzo rimpiangeva il suo stesso nome. Lo sperimentalismo era malattia, la malattia era pazzia, la pazzia é il marchio della società dei mezzi morti. Qualcuno contava i giorni, Javert li aveva persi con la primavera, perché ormai non regnava più e non ne sentiva il crescendo. Le voci sono l’eterna bellezza, diverse e vive, trepidanti allora, andavano a fondersi nel coro della salvezza così vicina adesso: “fuggiamo prima che sia troppo tardi, sono qui fuori”. E mentre gli altri correvano, respirando la gioia di quell’assedio improvviso, delle centodieci guardie impegnate invano, della distrazione dalla vita degli altri per salvare la propria, lui non si muoveva. Era un personaggio solitario, l’ultimo pastore del presepe, il fiore reciso e poi scartato. Le sue parole erano rare, ma il suo silenzio era la pausa della sopravvivenza: lo elevava, perché grazie al pensiero disordinato diventava memoria e forse sarebbe stato immortale, di una gloria nuova rispetto agli eroi. Aveva mirato sull’uomo sbagliato, suo rivale, si era girato lasciandosi dietro il sangue sulla strada, ma il rimorso lo aveva vinto facilmente, lo aveva tormentato fin dal primo istante, come se fosse stato conservato in quell’arma e fosse risalito piano piano dalla sua mano al braccio, alla spalla, fino alla testa dove era rimasto immobile a inchiodarlo. Avrebbe voluto pensarci, ma l’istinto é il nostro dittatore e Javert sentì l’impulso di seguirli. Ma non conosceva la coerenza, era stato dato per matto e questo era il difetto che lo aveva salvato al momento, condannandolo senza processo a guardare le otto torri perfette ogni giorno. Subito dopo decise di parteggiare per l’indecisione e rimase fermo, solo perché alla fine ricordava anche lui che molti fiumi diventano acqua stagna. La prigione destinata a tradirli rimbombava di colpi, fuori gridavano, i detenuti, dimentichi della loro aristocrazia, affollavano i corridoi e si precipitavano verso quella guerriglia inaspettata che si sarebbe presto immersa nel vortice dei morti ammazzati, odore di polvere da sparo e tabacco e ancora nuove voci, con inclinazioni diverse e irruente. Ma in tutto questo la sua mente era il teatro della nuova rivoluzione, quella diversa dalla storia, che rimane dietro la nube gelosa del piacere troppo a lungo cercato. Le sue parole d’un tratto furono belle e nuove. Javert parlava e la sua voce sarebbe rimasta per sempre eco insistente nelle menti dei testimoni che non credevano più e sarebbero stati pronti a giurare per qualsiasi dio. “Sono stanco, di una stanchezza ignava, perché non mi sento affatto tiepido, ma questa lotta è per la primavera e io non posso condividere, ricominciare e raccontare la felicità che mi ha levigato: la perderei, ne venderei il suo stesso valore e la avrei poi tra le mie mani così, insipida, senza che mi possa dire date di fiori la sera, quando so che evito il mio riflesso in tutti voi. Noi ci siamo sempre curati e continueremo, in una danza lenta e perpetua, a pensare alla luna e alla verità di cosa siamo, ma vogliamo l’identità dalle pietre… È una pietra! Mi chiedi dove allora? Non si può cercare qualcosa che sai che prima o poi rivedrai, si trova e basta; invece la disperazione del tutto che manca è eterna e, una volta che te ne sei accorto, è finita, non ci sono calcoli. Quando i tuoi sensi cambiano, chiedi sempre più libertà, vuoi e speri uno stupore crescente che però non puoi desiderare e attrarre, lo contamineresti, scivolerebbe via, come se la sua natura non consistesse più nel suo effetto. Siamo la vaghezza del tramonto, quando è troppo tardi e troppo presto per perdersi ancora, abbiamo lasciato il giorno e puntiamo l’anima sulla notte, che sia la figura della morte e ci sussurri il nostro domani. E questa nostra incertezza abbellisce le soffitte dove decidiamo di vivere, le rende serene e vendicative, sì, intente ad afferrare il culmine della città e di tutto quello che la sovrasta. Da fuori accorrono indifferenti il vento e i brividi di chi sa davvero cosa aspettarsi, sono quelli a sferzarmi il sentimento. La vulnerabilità di una ferita è il pericolo che temo più della ferita stessa: vorrei che tante parole ricadessero nell’oblio e che non mi guardassero più a significare odio e rassegnazione, ma invece tornano nella loro furia a torturarmi senza tregua. Finché qualcuno non rovescerà una campana di vetro su tutti i nostri falsi nomi per soffocarli nel silenzio della pace, saremo costretti a interrogarci e vederci sempre diversi, cosicché io non ti riconosca, no, neanche te, miracolo da cui dovrei trarre il mio sangue amaro. Viviamo d’aria, sospesi nella contemplazione di noi stessi e non lo sapremo mai, neanche se qualcuno potesse mostrarcelo, come un quadro che esiste solo nell’immaginazione. Mi avete detto tante frasi sconnesse di morte, volendomi sempre pazzo e ingannato dalla mia estraneità e queste non le sento più: non sono nella mia stanza, non si appoggiano alla mia ombra, non mi stanno davanti come guide e, soprattutto, non avverto la necessità e la tensione a stringerle nel pugno; scivolano via, mentre rimango affacciato a un pozzo da cui non chiedo acqua. Passeremo e copriranno quello che abbiamo lasciato già sepolto, per poi riscoprirlo tra secoli di stagioni e provare a capire come aprire il forziere. Siamo stati raccolti dai racconti di eroi diversi, ma adesso non sarà il nostro ideale ad accorrere fervido: catturato, appassirà lentamente, mentre noi ora siamo chiamati ad affogare nel mare del tempo”. E la Bastiglia moriva tra i singhiozzi delle rovine che sarebbe diventata successivamente, sacrificio solenne alla libertà pagana. Restavano i colori che avevano tinto anche le ultime parole, assieme ai sospiri finiti e le memorie troppo segrete per riaffiorare nei discorsi comuni: l’abisso del tempo è la morte del ricordo, il ricordo è la vita dell’immortale.
REBECCA RUGGERI
Liceo Classico C. Rebora- Rho
Classe 3^
Commento:
«La mancanza di senso è una costante ontologica, ma quello che appare, fra le maglie degli affanni quotidiani, è che tutto abbia una determinazione relazionale e valoriale. La vera prigione, invisibile e ineluttabile, si sostanzia in quel reticolo di aspettative sociali che trasformano le individualità in ruoli, approssimandole e tracciandone contorni impropri. È così che l’autenticità esistenziale diviene follia e la volontà, per natura magmatica e proteiforme, si rivolge stanca all’identità di una pietra. Il racconto, riempiendo una altrimenti sterile ricostruzione storica con l’esplosione spirituale di un singolo, si snoda in un’alternanza chiaroscurale di decadenza e fervore, che trascende le categorie ordinarie di comprensione, ma non le svilisce. L’impossibilità di fissarne una razionalizzazione precisa assurge ad emblema metanarrativo, estendendone il contenuto ben oltre il suo “cielo di carta”, ma senza strapparlo. Il discorso del nobile pazzo, volutamente confuso e sperso nei suoi deliri di verità parziali, ha una carica romantica travolgente, e si abbandona infine nell’unico luogo possibile: il ricordo. Due pagine geniali, dense di quella creatività pura e sregolata che non si impara, non si insegna e ci vuole coraggio a condividere. (Mattia Pedota)».
Notte senza stelle. Nuvole cariche di pioggia e di cattivi pensieri ancorate ai tetti dei grattacieli, scheletri di creature sconosciute, ricoperte di vetro e acciaio. Il metallo geme sotto il vento che scuote la metropoli. Strade di sangue, fiumi straripati dalle vene dei corpi. Campi di grano silenziosi, selvatici. Vedranno il mondo dopo. 11 mondo dopo l’uomo. Lei è lì in mezzo. Mi guarda negli occhi. Sorride. -Vieni con me.- Dice. Il rumore del mare astrale mi sveglia. Esco dalla vasca criogenica, il viaggio è terminato. Sono passati cento anni. Sarò ancora in tempo? Itaca è lontana. Io, sono lontano. Guardo, attraverso il vetro spesso, l’abisso dello spazio. Gli occhi mi brillano di stelle.Mi spoglio ed entro nella doccia.Mi lavo di dosso cento anni di sogni condizionati, cento anni di cellule morte. Fischietto il motivo di una vecchia canzone, che ho sentito da mio nonno, sulla veranda, in un’umida estate di tanti anni fa. Ricordo il tramonto e il sole caldo. Quanti chilometri ho percorso? Non ho un pelo di barba, e i capelli non sono cresciuti; il liquido criogenico mi fa sembrare più giovane di quanto dovrei essere. Mi rivesto, prendo una tuta pulita e ben piegata dall’armadio del piccolo magazzino. È profumata, e mi ricorda mia madre che d’estate stendeva i panni in giardino. Mi nascondevo tra le lenzuola fresche di bucato e aspettavo che mi trovasse. Da uno scaffale cade un libro, l’unico che ho portato, vecchio e polveroso. Parla di un uomo e del viaggio più grande della sua vita. Parla di Odisseo, ma parla di tutti noi. È una discesa negli abissi della mente, una discesa nel nostro inconscio, che ha bisogno di parole, di storie. Lo raccolgo e lo sfoglio. L’odore di polvere e di casa mi assale. Vedo, attorno a me, i fantasmi del mio passato, i fantasmi di questo universo morente. E vedo Lei, dopo il sogno, in un ricordo. È seduta sulla sua poltrona preferita, sfoglia un libro. Il camino è acceso, fuori nevica. Sento il suo profumo. Poi, come è comparso, tutto scompare di nuovo. Mi ha sempre stupito il fatto che nell’Odissea non sia narrato il momento più importante del suo protagonista, la sua redenzione. Avrà poi incontrato quell’uomo, sconosciuto, che lo avrebbe salvato? Quell’uomo che gli avrebbe chiesto perché portava un ventilabro sulla spalla robusta? Questa nave è la mia Penelope, il mio viaggio sarà la mia redenzione. Dove lascerò il mio remo, dove lo scambieranno per un ventilabro? La desolazione della sala comando mi incute timore. Quanto sopravviverò da solo, senza parlare a nessuno? L’universo è la mia casa, adesso, e il mio riflesso sul vetro della cabina il mio unico compagno di viaggio. Il pilota automatico è un robot dalle fattezze umane, ma non mi risponde. Un cortocircuito lo ha bruciato. Spaventato, controllo il navigatore e il computer di bordo. Ho perso la rotta da 17 anni. Dio, sono alla deriva da così tanto tempo, e adesso è troppo tardi per rimediare. Do un pugno alla tastiera e faccio partire inavvertitamente della musica. Space Oddity. Bene, al mio amico si è fritto il cervello, ma almeno ascoltava buona musica. Peccato che, in questo momento, la canzone possa soltanto peggiorare la situazione. Spengo e vado di nuovo nel magazzino, a cercare il cervello di riserva del mio copilota. Rovisto in una scatola di chip impolverati e ne trovo uno adatto. Ci soffio sopra, leggo le sigle incise sul retro e tomo indietro. Svito la calotta cranica del mio collega robotico, tolgo il chip andato e sistemo quello nuovo. Poi, richiudo. Mi allontano e aspetto che succeda qualcosa. Un rumore meccanico. Un colpo di tosse. Polvere. Polvere ovunque. Polvere dalla sua bocca, dai suoi capelli sintetici, dalle sue mani. Polvere, polvere, polvere. Più che l’ultimo baluardo dell’umanità, questa nave pare una tomba. Il robot si alza e mi guarda. Sorride. -Buongiorno. Io sono R-K-7-3, programmato per essere il suo copilota. Il viaggio è stato confortevole? -Sta zitta, maledetta lattina. Per colpa tua stiamo vagando in mezzo al nulla. Ora cerca di riportarci sulla giusta rotta o io… -Oh, no. No. Siamo entrati nel campo d’azione di un buco nero. È per questo che sono andato in cortocircuito. Avevo bisogno di una batteria più potente. -Com’è possibile? Siamo fuori rotta da 17 anni, non può… -No, signore. Ho perso la rotta solo tre giorni fa, quando siamo arrivati in prossimità del campo gravitazionale. Non lo sapeva? Avevo l’ordine di cambiare rotta dopo 83 anni di viaggio, impostandone una secondaria. La nostra meta è il buco nero. -Non… non può essere. Dio, non può essere vero! -Mi dispiace. Avevo ¡’ordine di non divulgare l’informazione. -Moriremo…- Cado a terra, tremante. Piango. -Signore, credo che sia stato informato della pericolosità della missione sin dall’inizio. Non si è forse offerto volontario? -Non mi avevano detto che sarei morto in uno stramaledettissimo buco nero! Mi alzo, insulto il robot e me ne vado. Mi siedo nella piccola cucina. E costruita per sembrare famigliare e confortevole, ma risulta solo asettica. Prendo dalla tasca una sua foto in bianco e nero. Lei è bellissima. Sorride, con i denti bianchi, e indica qualcosa fuori dall’inquadratura con il braccio destro. Il vento muove i suoi capelli biondi. Ricordo ancora quella giornata, e quel bosco, custode del nostro amore nascente. -È sua moglie?- Il robot mi coglie di sorpresa. La foto mi cade di mano, la raccolgo e la metto in tasca. -Solo un ricordo. E poi, non sono affari tuoi. R-K-7-3 si siede. -Ha fame? Dovrebbe mangiare qualcosa. -Per quale motivo? Per sopravvivere? Sto per essere ingoiato da un buco nero. A cosa diavolo servirebbe? Il mio copilota tace. Poi, con aria serena, chiede: -Posso darle del tu? -Stiamo per morire. A chi può importare? -Come ti chiami? -Strano. Ho passato così tanti anni in quella scatola che non Io ricordo nemmeno più. -Sei serio? -Sto scherzando, stupida lattina. Chiamami Dave. -Oh. Sai, non siamo programmati per avere un gran senso dell’umorismo. -L’ho notato.- Sorridiamo entrambi. Dopo una breve pausa, R-K-7-3 mi fa una domanda di quelle a cui non si sa mai come rispondere. -Credi in Dio, Dave? -No. -Perché, se posso chiedere? -Perché, secondo te, se Dio esistesse, permetterebbe tutto questo? Permetterebbe la morte dell’universo da lui stesso creato, senza lasciare speranze? -Noi siamo quelle speranze, Dave. -Ah sì? Noi? Che cosa possiamo fare, qui, adesso, per tutti i nostri cari che stanno morendo sulla terra? -Pensavo che fossi partito perché sulla terra non avevi nessuno. Ma a quanto pare non è così… -lo…io ho… -Chi? La ragazza della foto? Non rispondo. Una lacrima mi riga la guancia destra. -Perdonami, Dave. Sono stato un idiota. Avrei dovuto capirlo. Silenzio. -Sei partito per quello? Annuisco. -Sai, quando ti portano via la cosa che più ami al mondo, fatichi a credere in Dio. E poi, cosa vuoi da me, sono nato nel Bronx, non sono un teologo. – Aggiungo. -Questo era umorismo. Ridiamo entrambi, perché sappiamo che piangere non sarebbe d’aiuto. Poi, l’allarme inizia a gridare. -Ci siamo. – Annuncia R-K-7-3. -E il buco nero? -Sì. Siamo in rotta di collisione. -Credo che sia giunto il momento delle spiegazioni. Vero, lattina? -Vedrai, adesso ti sarà tutto chiaro. Sai cos’è una singolarità gravitazionale? -No, ma vai avanti. -La singolarità gravitazionale è la possibilità che avvenga un collasso gravitazionale dello spaziotempo. Probabilmente è il concetto alla base del Big Bang, e il suo segreto è nascosto nella struttura dei buchi neri. -Continuo a non capire. -Fammi parlare. Quando un oggetto cade in un buco nero, è impossibile riconoscerlo dall’esterno o mettersi in contatto con esso. Ma probabilmente quest’oggetto viene in contatto con la singolarità. Inizi a capire? Per il nostro universo non ci sono più speranze. La nostra ultima possibilità è quella di innescare, se così si può dire, la singolarità. -E causare un altro Big Bang? Ma andrebbe in contrasto con il nostro universo, sarebbe la fine di tutto! -Il nostro universo sta morendo, Dave, lo hai detto tu. Quali altre possibilità abbiamo? Rifletto. Ha ragione. -Con cosa inneschiamo la singolarità? -Qui entro in gioco io. Non sono “solo” il tuo copilota. Al mio interno sono contenuti tutti gli elementi scoperti in natura e creati in laboratorio. Io sono una sorta di bomba, causerò la fine del nostro universo, ma porterò all’inizio di una nuova era, dove anche il tempo ricomincerà da zero. -E io? Io a cosa servo? -Non l’hai intuito, Dave? Tu sei tutto. Un magazzino contenente miliardi di cellule. Tu sei la Vita, Dave. La nave si avvicina sempre di più al buco nero. L’altoparlante annuncia che mancano dieci secondi all’impatto. -Come ci si sente ad essere Dio?- Chiedo, sorridendo. -E come ci si sente ad essere parte della razza che mi ha creato? Tre. Chiudo gli occhi. Due. Stringo tra le mani la sua foto. Uno. -Vieni con me.- Zero. Apro gli occhi. Le orecchie mi fischiano. Mi tolgo il casco dell’ingombrante tuta. Il sole è caldo. Sulla veranda, il nonno canta una canzone dei tempi della guerra. Mi guarda, e con un cenno del capo mi indica il giardino di casa. Le lenzuola sono stese in ordine. Si sente il profumo da lontano. Passo in mezzo ad esse. Dall’altra parte c’è mia madre. Sorride. -Ti ho trovato!- Mi dice. Mi sento di nuovo un bambino. Adesso nevica, fa freddo. La mamma e il nonno non ci sono più. Corro in casa, il camino è acceso. Il suo profumo di rosa si sente fino in corridoio. Lei è sulla poltrona, la sua preferita. Sta sfogliando l’Odissea. Appoggio il casco sulla cassettiera all’ingresso. -Prima o poi ti convincerò a leggere questo libro. È semplicemente magnifico.- Mi porto la mano alla bocca, non riesco a trattenere le lacrime. Adesso siamo in un bosco. Le restano soltanto due mesi. Ad un tratto alza lo sguardo e indica un punto indefinito del cielo. Indosso il casco. Sul vetro spanciato si riflette un razzo che parte. Adesso è buio. Sento attorno a me il grano frusciare nella notte stellata. Il remo pesa sulla mia spalla destra. In lontananza vedo i fuochi di un accampamento. Chiederò cibo e un giaciglio su cui passare la notte. Un bambino, con gli occhi che brillano nell’oscurità, mi corre incontro. -Cosa ci fai di notte con un ventilabro? Non lavorare ora, vieni a riposare!- Scoppio in una fragorosa risata. Il bambino mi guarda perplesso. II mio viaggio è finito. Conficco a terra il remo e cado in ginocchio. Un lampo nella notte, un’esplosione. In lontananza si illuminano i tetti dei grattacieli, scheletri di creature sconosciute, ricoperte di vetro e acciaio. Alzo lo sguardo verso il cielo. E mattutina appare Aurora dalle rosee dita.
FRANCESCO SIMONESCHI
Liceo Classico C. Rebora- Rho
Classe 3^
Commento:
«Il richiamo del titolo alla canzone di David Bowie rivela subito l’ispirazione del racconto. In forma quasi paradossale, l’incipit della narrazione si struttura fra il presente di un viaggio astrale e un flashback verso contesti del passato del protagonista: un voluto e naturale ritorno a situazioni semplici e terrene, che offrono il giusto contrasto con l’adesso della vicenda spaziale. Vi è poi l’analogia con la parabola di Ulisse, che pervade in verità molti scritti che raccontano un tragitto spesso impervio, solitario e disperato. Si raccoglie più in particolare la metafora del viaggio quale percorso dell’esistenza, la sua difficile traiettoria, le difficoltà e i rischi di distruzione, emotiva e reale, dei legami terreni. Nonostante il finale – simbolicamente rappresentato da una morte fantascientifica – questa storia lascia un filo di speranza, che viene raffigurata (se non altrimenti) dal mistero che pervade l’esistenza, sia questa si sviluppi in modo semplice e convenzionale, sia che proceda lontano milioni di mondi. Sono pensieri forse eccessivamente densi e non perfettamente distribuiti nel testo, ma sicuramente originati da un potenziale scrittore, che sta provando a definire con impegno la propria traiettoria narrativa. (Roberto Mosca)».
Faceva molto freddo. La ragazza non sentiva più le dita ormai. Si guardavano negli occhi. -John? -Parti? -Sì. A loro bastavano gli occhi. -John? -Non partire. -Devo partire Jane. -No. ti prego aspetta ancora un po’. -Mi dispiace Jane. -John, il tetto è rotto. -Domani arriverà qualcuno a ripararlo. -Ma fa davvero freddo. John. -Non farmi fare ritardo. Solo gli occhi. Niente di più, né un sussurro, né un gesto, nemmeno un’espressione facciale. -Non sarai felice. -Che intendi dire? -Intendo dire quello che intendo dire. Intendo dire che una piuma troppo leggera non arriverà mai a terra. -Perché? -Perché il vento la porterà sempre via. Qualcosa senza il suo peso maggiore è qualcosa senza una parte di sé stesso. Qualcosa che non troverà mai il suo obiettivo. -Non capisco. -Sì che capisci John. Hai sempre capito tutto. L’uomo si sedette. Fissava la vallata. Forse gli occhi quel giorno non sarebbero bastati. -Devo…trovare altro. Devo esplorare, viaggiare, amare, soffrire, volare. Devo cambiare il peso che mi fa restare ancorato a terra. -Questo non ti basta? Il mio semplice sorriso non li basta? -No, non mi basta. Mi sono nutrito del tuo sorriso per troppo tempo Jane. E sono stanco di parlarti in questo modo. -E’ perché sono sordomuta, John? E’ per questo problema? E’ perché sei l’unico con cui posso comunicare con un semplice sguardo? E’ perché è troppo difficile per te? Non hai idea per me. Non hai idea di cosa voglia dire urlare in silenzio. Quando tu sola piangi e nessuno se ne accorge perché non ti possono sentire. E vedere gli altri intonare una canzone, quando non sai nemmeno il significato di “canzone”! E le note? Dio, le note! Poterle leggere e non poterle udire, nemmeno pronunciarle. Devo immaginarle, ma come si può immaginare qualcosa che non hai mai provato!? Rispondimi! La strinse forte a sé. Gli occhi non bastavano più. -Ogni piuma ha il proprio peso. -John, fa freddo. Il tetto è rotto. Non sento più le mani. -E’ per questo che ti sto abbracciando. -Eppure l’unico calore che sento è quello delle mie lacrime. Quando arrivò, si rese conto che la valanga aveva coperto tutto il lato sud della vallata. C’era una piccola folla attorno a quattro persone stese a terra. La gente urlava, alcuni bambini piangevano, le donne chiedevano aiuto, dicevano che un ramo troppo appuntito aveva trapassato il cuore di uno, che un altro aveva il cranio rotto, a un altro usciva del sangue dalla bocca, gridavano di portare subito soccorso medico e di non guardare la scena come topi accanto a un morto ormai imputridito. Forse. La ragazza non poteva sapere cosa stessero dicendo, ma non era difficile immaginarlo. Si fece largo fra la folla, cercando di vedere i quattro uomini, con un brivido che non era causato dal freddo, ma da un tremendo senso di paura che le stava divorando il cuore sempre più velocemente. E lo vide. Ci mise un po’ a riconoscerlo a causa dell’enorme buco pieno di sangue che aveva in fronte. Il liquido scarlatto scendeva lentamente e aveva coperto metà del viso. La donna si accasciò a terra incurante della neve, del freddo, del vento che le bruciava il volto, dell’orrore che provava per quella ferita, del fatto che le mancasse il respiro, dei polmoni gonfi di dolore, delle persone che le dicevano di allontanarsi, ma che lei non 145 poteva comunque sentire. Allungò il braccio tastando il collo per toccare le pulsazioni del cuore. Ma non sentiva più le mani. A dir la verità, non sentiva più nulla. E urlò. Urlò un grido muto, inutile, forte, terribile, pieno di rimpianti e angosce, un grido non riuscì a spezzare il soffio del vento. Urlò come non aveva mai urlato, per farsi sentire, per farsi compiangere, per fare la differenza. Ma come ho detto, era un urlo muto. E oramai nemmeno le lacrime la scaldavano più. H oramai nemmeno quegli occhi, quegli occhi di un blu serafino, quegli occhi per cui si diceva avesse donato la voce stessa, erano inutili di fronte al dolore del nulla. Rimase lì, ferma, accasciala vicino a un cadavere di cui non poteva sentire il battito. Rimase lì, ferma, senza nessun potere, senza nessuna sensazione, senza nessun peso. Rimase lì, ferma. Come una piuma troppo leggera persino per volare.
DAVIDE PROCOPIO
Liceo Classico C. Rebora- Rho
Classe 3^
Commento:
« “Una piuma senza il suo peso non arriverà mai a terra”: senza un centro di gravità si tende a volteggiare senza sosta, soltanto a tratti al proprio ritmo. Pregevole la duplice lettura del peso come difficoltà e, ad un livello più astratto, come mera ancora esistenziale. Degna di nota è anche l’immagine dell’urlo muto, che si configura come sintesi poetica della dicotomia fra il bisogno dilaniante dello spirito e le costrizioni della materia. Il susseguirsi di metafore trova la migliore delle conclusioni nell’immagine della piuma troppo leggera persino per volare: se la mancanza di un peso condanna al movimento perpetuo, lo smarrimento di sé nel vortice di una tragedia conduce ad una forma paralizzante di disperazione. Dal punto di vista prettamente narrativo, il racconto tocca una molteplicità di temi senza appesantirli né snaturarli: Il binomio classico amoremorte, ma anche il contrasto fra il bisogno di possesso e la voglia di libertà, così come la scissione fra mondo esteriore e interiore. Le dualità sono sapientemente tratteggiate con accostamenti a metà fra il descrittivo e il simbolico, come quello fra il freddo e il calore di una lacrima, e sviluppate attraverso dialoghi snelli, taglienti e puliti. Ciò che emerge, nel complesso, è una grande sensibilità, sia nella penna che nell’anima. (Mattia Pedota) ».