Sogno perché sono vivo
vivo perché sono libero,
Libera è la mia anima
che vola nel cielo dei pensieri
Un cielo privo di nuvole
spazzate via dalla mia voglia di vivere.
Non voglio che nessuno
mi impedisca di sognare
non voglio che nessuno
spezzi i miei desideri.
Non sono un illuso,
sono giovane e voglio vivere.
Voglio trasformare
con i colori dell’arcobaleno
il bianco e nero che mi circonda.
Questo è il mio grido di speranza
PEZZOTTA RICCARDO
MEDIA MANZONI IV RHO
Classe 2a
Commento:
«“ Il mio grido di speranza” è una poesia fresca, gioiosa, positiva. C’è il ritratto di un giovane che si pone di fronte alla vita con l’entusiasmo di chi sa che il futuro gli appartiene, con l’ottimismo di chi vuole dar vita ai propri desideri e sa che ha a disposizione il tempo necessario a realizzarli. C’è la consapevolezza che alla base dei sogni sta la libertà e questa convinzione, oltre a renderlo vivo, gli dà la certezza che potrà colorare la vita coi colori dell’arcobaleno, che potrà cioè realizzare anche l’impossibile. Il grido di speranza di questo giovane poeta è un inno alla gioventù e al proprio futuro che lui vuole plasmare con le sue mani, mettendo ben in guardia gli altri a non provare a spezzare i suoi desideri. La vita presenterà le sue sfaccettature nel tempo, ma raffrontarla col piglio giusto, armonizzerà il futuro e porgerà sicuramente i suoi lati più positivi. E’ un grande messaggio di speranza racchiuso in tredici versi che colora con i colori dell’iride anche il nostro futuro».
Mi affaccio alla finestra
e osservo l’albero in giardino.
La brezza tiepida
attraversa le sue fronde
riportando vita e allegria in questo
limpido mattino.
Fra non molto arriverà l’estate,
l’albero si riempirà di foglie,
sui suoi rami cinguetteranno
gli uccellini
e alla sua ombra giocheranno
i bambini.
Sarà un po’ triste quando
arriverà l’autunno,
le sue grandi foglie lo
abbandoneranno.
La pioggia fresca laverà
i suoi spogli rami,
tutto intorno a lui il vento
disegnerà ricami.
Arriverà l’inverno col suo gelo,
e il mio albero è triste così spogliato.
Sui suoi rami sarà un bianco velo.
Nel paesaggio fermo ed ovattato
soffrirà al freddo ma resisterà
finché in primavera
la sua vita rifiorirà.
Come l’albero anche la mia vita
potrà attraversare le quattro stagioni
con dolori, speranze e gioie infinite.
So che io la vivrò coltivando emozioni,
amerò tutti i giorni finché scende la sera
e nel cuore avrò sempre la primavera.
PALEARI CHIARA ILEANA
MEDIA MANZONI IV RHO
Classe 3a
Commento:
«La composizione, con parole semplici e sincere, esprime quella sana voglia di vivere e di rigenerarsi: la natura, palcoscenico ideale – dove l’autore in sintonia mette in scena le avanguardie dei suoi pensieri, dei desideri e delle aspettative, diventa l’artefice di significati e di simboli. Il poeta riesce così a fermare sulla pagina le immagini, a far percepire i colori, i suoni e quei momenti di una metamorfosi che trasforma il tempo in un attimo fuggente. L’elemento naturale diventa familiare, amato, odiato (quando non risponde ai nostri capricci), rasserenante e rassicurante: elemento al quale il poeta tenta di aggrapparsi per assaporare le correnti sotterranee della fugace beatitudine terrena. Nei versi, la natura subisce un processo di umanizzazione e diventa una figura (o tante) intenta a spogliarsi e a rivestirsi: figura che porta alla mente il cambio delle stagioni, il lento transito e il risveglio di nuovi fiori e frutti. Il fluire del tempo della natura e quello del poeta, sintetizzato con il verso finale “Come albero anche la mia vita / potrà attraversare le quattro stagioni…” ed espresso in un tono delicato e fresco, è scomposto in tanti attimi di “dolori, speranze e gioie infinite” e reca un messaggio di primavera».
Piano, piano,
a poco, a poco,
aspre, salate, amare lacrime
rigano il mio viso.
La mente viaggia
nei luoghi del passato…
ed io non sono più dove il mio
corpo è.
Sono in voci di speranza
rotte da pianti inimmaginabili.
Sono nei venti della disperazione
che soffiano nel deserto dello
sterminio.
Sono in uno spiraglio di ricordi
passati
che per sempre segneranno il
futuro,
mio… di tutti…
ogni volta che il viso sarà rigato…
…da lacrime di memoria…
(in memoria degli spiriti immortali
che per sempre veglieranno
affinché il loro passato nei campi
di sterminio
non diventi il nostro futuro)
SALERNO ALICE
MEDIA L. DA VINCI ARESE
Classe 3a
Commento:
«Questa è una poesia che commuove, per la profonda tristezza che la pervade. Tristezza che non ha nulla di frivolo, di esistenziale corrente. E’ un tipo di tristezza, che è il marchio della storia violenta vissuta dalle generazioni passate, che hanno permesso però a noi, ora, di vivere questo periodo di pace.. Pace che è così rara nella storia dell’uomo! Ma lo spirito dei trapassati veglia su di noi, perché lo sterminio dei campi infami non si ripeta nel nostro futuro.Certo, quando quei fatti affiorano nella memoria, ecco…”aspre, salate, amare lacrime rigano il mio viso”, dice l’autore. Io mi perdo nella notte del tempo, sembra dire, dove odo però anche voci di speranza. Purtroppo quelle voci ricordano il deserto dello sterminio di tanta gente, che non ha potuto vivere la sua vita in serenità; deserto che farà parte del mio futuro, perché ogni qua] volta si aprirà la memoria incancellabile di fatti orrendi, il mio volto si righerà di lacrime».
Adagiata nel candido bagno di latte
la finissima polvere bruna
diffonde infinita dolcezza
al cuore congelato
da una fredda sera d’inverno.
La mente viaggia…
Alberi di marzapane…
Fiumi di miele…
Nuvole di zucchero…
Dolci paesaggi impressi nei miei pensieri…
Vagano…
Vagano i ricordi
che smarriti nel tepore di una
cioccolata
sfiorano addolcendo le labbra tremanti…
VITALE GIULIANA
MEDIA L. DA VINCI ARESE
Classe 3a
Commento:
«C’è sempre nella dolcezza il retrogusto di una perdita, sia pure per il solo fatto che la cioccolata che stiamo bevendo, sorso dopo sorso, finirà. Perciò si beve lentamente, per allontanare la separazione da noi. Così nei versi di questo componimento, con l’uso per ben sette volte dei puntini di sospensione, l’insistere dell’aggettivazione che viaggia dalla dolcezza al gelo per finire con il tremore dell’addio. Nella durata di quella cioccolata c’è lo spazio di una vita, sia pure vissuta nel ricordo, riscritta con caratteri di zucchero. Lentamente, ci si ricorderà solo dei giorni -dei suoni – più belli».
Né vinti né vincitori
solo un grosso genocidio.
Né vinti né vincitori.
Solo donne straziate che gustano
oil sapore del dolore
e delle notti passate in bianco
a piangere.
Né vinti né vincitori,
Lacrime….
Sono lacrime.
Centinaia di lacrime che lasciano
per sempre
la dolce pupilla che le aveva allattate
con l’aspirazione di diventare
eroi.
Tutti i progetti
maturati sulle fondamenta della
loro
identità volarono via singhiozzando
Via, accompagnati dal profumo
di tulipani, papaveri e rose.
Ed insieme a una croce
e ai loro stoici attimi di gloria,
volarono verso un tramonto
colorato col loro sangue.
RAPALLO MASSIMO
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 2a
Commento:
«Ancora la guerra al centro della riflessione del giovane poeta: una guerra inesorabile al termine della quale non ci sono nè vincitori nè vinti, solo morti e pianto. Il pianto delle donne (mogli e madri, si immagina) – a cui i morti pensavano di dedicare il proprio eroismo- assiste la fine di ogni sogno o progetto di gloria e insieme al pinto il dolce profumo di una splendida natura che continua a vivere,colorata nei suoi fiori come il sangue dei morti e impassibile davanti alla tragedia. L’inutilità della guerra, la tragedia di vincitori e vinti accomunati dalla morte sono il filo conduttore di questa breve poesia bella nella forma iniziale e nelle immagini della natura».
Non raccontatemi
nessuna favola
stasera
che il ricordo
brucia piano
la tua assenza
e lasciatemi così
come un bisbiglio
a mezzo fiato
strappare
questo inganno
che intesse
l’ombra col buio
quando spalanca
il confine l’inconscio
e resta notte
anche il giorno
SERRAO ALICE
LICEO CLASSICO C. REBORA
Classe 2a
Commento:
«Poesia ben costruita in cui la fine di ogni verso suggerisce una pausa, con una sbavatura verso la fine che interrompe un’armonia riflessiva che, nel sottolineare lo stato d’animo del poeta, coinvolge lo stesso lettore. Infatti, certe situazioni dell’esistenza non si prestano a giustificazioni melense, anche se ben costruite. Nemmeno il ricordo lenisce il dolore dell’abbandono e i giochi della memoria sono la soglia della tristezza più profonda. Il titolo però è emblematico e suggerisce che tutto può certamente diventare più buio della notte, ma per un tempo limitato e cioè: “Fino a domani”».
Stando sulla cima della Montagna del Destino
e guardando il cielo e la luna brillante,
penso alla vita e al suo senso,
guardando che scorre senza tregua,
sottomettendomi al magico suono dell’atmosfera della notte,
quando meravigliose stelle luccicano calmandomi,
e un misterioso vento sussurra risposte
su questo profondo pensiero,
e tutto quello che mi circonda calma la mia anima.
C’era un coraggioso, di cui nome non svelo,
un uomo con pensiero filosofico, a cui piaceva sognare.
si trovò sulla cima della Montagna,
non per caso, questo vi dico,
guardando la vita con romanticismo,
preferendo pensare al suo destino invece che al matrimonio
Non si meravigli nessuno, che sorridente
ma infreddolito, guardava le stelle,
e non pensando a niente di futile, cercava Sirius,
un povero elegante, che guardava
spesso negli occhi delle donne
e il misterioso vento chiedeva il suo parere
Su tutto questo l’uomo rispose semplicemente:
“Non è per me il lavoro nei campi e il
badare ai bambini,
io vivo di pensiero e lo cerco,
vivo con sorriso perché mi da tanta
felicità raccogliere fiori,
altri non hanno tanto sole nella vita
perché sono accecati dalla vendetta e
dal materialismo.
Io rimarrò per sempre felice, perché
meglio dare che prendere,
questo è il mio mono”.
Stando sulla cima della Montagna del Destino,
pensando al senso della propria vita,
si può capire molto, questo vi dico,
ma non è facile comprendere la propria esistenza.
MLYNARCZYC DANIEL
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 1a
Commento:
«E’ una interessante riflessione di questo giovane che si pone il problema di comprendere il senso della vita. Cos’è la vita questo meraviglioso dono, sia nel bene che nel male, è un periodo che passeremo sulla terra. E’ un periodo che ogni uomo, da che mondo è mondo, si chiede e cerca varie risposte ai suoi perché!? Studia, legge, ricerca, approfondisce, ma poi si accorge che la sua maturazione e conoscenza avviene nel dialogo con gli uomini in un rapporto di rispetto e di amore. Si accorge anche che non basta contemplare il cielo, il mare ed altro per illuminare la nostra interiorità e arricchirci sentimentalmente e intellettualmente; ma anche in “una piccola luce in un grande buio possiamo trovare la grande luce” che può farci capire il vero senso della nostra vita».
Che ci conduca il vento o la sola luna
saranno esortazioni di vite legate da fili di carta
a farci dondolare a! di là del possibile
quasi sul bordo tra notte e illusione…
Psicopatici
psichedelici
allucinogeni attimi
improbabili
da crederci e difficili da viverci:
ma è il volume che si alza
o forse
è quest’ultimo bicchiere
mezzo vuoto
a ubriacarti
e farti ridere e piangere
come a cento all’ora in tre senza
casco,
in una foto memorabile,
sulle vie dell’eterno gioco.
CARELLA ALESSIA
LICEO CLASSICO C. REBORA
Classe 2a
Commento:
«Leggendo la composizione poetica emergono forti sentimenti e un animo sincero, complesso e contraddittorio; il poeta, tormentato da una ricerca esistenziale, attanagliato dal dubbio che lo sovrasta e smarrito “quasi sul bordo tra notte e illusione…”, non riesce a mettere fine all’incertezza, al vuoto, al niente che lo circonda. La sua voce rimane senza voce. L’autore è consapevole che il cammino è difficile, il percorso è arroventato da “allucinogeni attimi” e cerca, allora, di non smarrirsi e di non alzare troppo “il volume”. L’isola felice, per quanto qualcuno lo neghi, non esiste. E solo un’illusione che dura poco e si frantuma nell’etere. Poesia esistenziale, nella quale l’autore, in un alternarsi, un disperdersi e un ritrovarsi, tenta di comunicare la convinzione che nel mondo, in questo mondo esiste la predominanza del male, l’ingiustizia e la sopraffazione. Ma questa amara constatazione è temperata da quella voglia di urlare, di andare “a cento all’ora in tre senza casco”, di ridere e piangere, che è il fluire del vivere quotidiano. Poesia audace: poesia capace di lasciare un segno indelebile nel deserto degli adulti e di trasmettere un disagio che dovrebbe far riflettere».
La terra esala il suo affannoso
respiro
e aspetta,
fumi si alzano dai pilastri viventi
come muri che inconsistenti si
protendono al cielo.
Cielo e terra si confondono.
Ogni cosa è nulla e niente è tutto.
Deboli fiammelle svaniscono
inghiottite dalla bruma,
come occhi socchiusi nella notte.
Scarne ed adunche mani fendono
la densa coltre,
le strade si vestono di ragnatele.
Sola, ma osservata da mille sguardi
Mi muovo silenziosa nel silenzio,
che tutto soffoca.
Sola, persa in un mare di ombre…
VERCO SOFIA
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 5a
Commento:
«Nelle sue composizioni poetiche, la giovane poetessa carica di significato i versi e la parola – espressione del suo animo nobile – lascia un segno, una traccia nella coscienza del lettore. Ella, pur smarrita (il titolo “La nebbia” credo non sia casuale) e stordita dai “fumi che si alzano dai pilastri viventi”, recependo le ansie del tempo che scorre, le sollecitazioni, la solitudine e, purtroppo, il niente che circonda spesso il mondo dei giovani, cerca di ribellarsi e di “fendere “ la densa coltre” di indifferenza. L’autrice, stretta nella morsa dell’incertezza, del precario, “sola, ma osservata da mille sguardi”, che però sono ahimè “deboli fiammelle”, può rifugiarsi solo nel silenzio interiore. Tuttavia, non emerge la rassegnazione perché, poiché ella pur avvertendo di sentirsi “sola, persa in un mare di ombre”, prorompe con la sua voce innocente e trasparente in questo silenzio e, percependo sia la trepidazione dell’attesa che l’affanno e l’incapacità (“… le strade si vestono di ragnatele”), riesce a denunciare questo mondo di ombre adulte che non ascoltano le voci dei giovani e non capiscono le loro esigenze».
Ecco, spunta la notte.
Da dove giungi, e dove andrai
io non so vedere.
Quale la tua fine cosa la tua essenza,
sbiadirebbe il mondo intero
a conoscere il tuo velo.
Libera il mio spirito,
lascia che trapassi il mito del
demiurgo.
Invoco i simulacri che vagan fra
le ombre:
da ceneri consunte creare ora
devo
qualcosa di infinito, qualcosa di
assoluto.
TOLENTINO SAMUEL
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 5a
Commento:
«Risucchiati dall’abisso di inquie-tudine e di tristezza di questi versi, è difficile rimanerne estranei, non provare turbamento di fronte ad essi: eppure, come quella “lacrima di pianto” iniziale può trasformarsi in “rimasuglio di pianto” e, forse, in un futuro, inespresso sorriso, allo stesso modo “quell’eco di grido disperso” e la “ sorda nota di musica” troveranno un ascolto… e la “briciola di pane” potrà sfamare qualche passerotto… e tutto se ne andrà, piano piano, lasciando proprio la “scia di nuvola bianca” finale come lieve, indolore ricordo della tempesta vissuta».
Eccoci seduti, evitando sguardi
altrui,
a discutere del presente con
improbabile ilarità.
Una birra, un pallone e una risata
che sale nel cielo e che si spegne
improvvisa
è tutto ciò che noi chiediamo.
Noi,
colonne di uno stereotipo
di cui non abbiamo mai chiesto
resistenza:
i ragazzi sulla panchina…
Ci si potrebbe fare un film!
Contenti di essere per un attimo
su un pianeta lontano e strafottente,
e tristi di sapere che è tutto falso
ed illusorio.
Quando arriviamo la fontana ci saluta
e l’acqua promette di tacere fino
al futuro più lontano,
quando racconterà le nostre vite e
le nostre passioni
ad ignari passanti che, come noi,
avranno trovato per terra i mezzi
magici e comuni
per fuggire da un posto che non
può piacere.
Siamo otto bottiglie vuote,
cadute per terra ma non per questo rotte:
ogni tanto ci riempiamo
per berci ancora tutto d’un fiato.
MORETTI DAVIDE
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 5a
Commento:
«Poesia pulita, chiara, come le parole di una compagnia che si incontra su una panchina: la metafora del vetro e dell’acqua di fontana ben rispecchia la situazione di un giovane che guarda verso il futuro, senza precludersi nulla, senza la presunzione di essere qualcuno di straordinario, ma con la consapevolezza che non tutto ciò che ci circonda è reale, sincero. La bottiglia si può riempire di fango, veleno, mare… qui si preferisce lo zampillo di fontana, corrispettivo cittadino della fonte sorgiva: linguaggio cristallino da riempirsi di idee e non di immagini senza senso. Ciò che non piace, ciò che piace… Si cambia sempre durante la vita. Di volta in volta si beve con labbra diverse: si pensa, si scrive, ci si riempie e ci si svuota, non soltanto nell’adolescenza».
Osservo una rosa.
Ammiro i grandi petali,
ne sfioro il morbido contorno,
dove sono posate goccioline di
rugiada.
Ha un profumo dolce, delicato.
Mi pervade l’anima, e mi solleva
dai pensieri.
Noto però che una fogliolina è
gialla e secca.
Si sbriciola ad un mio sospiro,
Guardo i boccioli e mi sembra di
vedere l’Africa.
Solo ora comprendo,
Quelle piccole spine,
sono malattie.
I due piccoli boccioli, sono occhi
di un bambino.
Occhi che s’imprimono nell’anima,
che restano fissi nella mente.
La fogliolina secca, delicata, è un
bambino,
il sospiro che la fa sbriciolare
è la fame.
Ma credo che regalerò la rosa.
Sono sicura che farà nascere un
sorriso.
Forse, il sorriso di un bimbo
dell’Africa.
MORGANA ELISA
LICEO SCIENTIFICO E. MAJORANA
Classe 3a
Commento:
«Questa poesia sembra un sogno pieno di bontà e di altruismo. Il poeta osserva una* rosa, dai grandi petali, dal morbido contorno, su cui si posano goccioline di rugiada a renderla ancora più bella. Il profumo della rosa pervade l’animo del poeta e rende alti i suoi pensieri. Ma, ahimè, un petalo è giallo e secco e si sbriciola al più lieve soffio. Fuor di metafora, il poeta ci dice che noi possediamo le cose più belle, tante comodità, tante cose anche inutili, personificate da quella rosa che sta ammirando. Ma se ben si guarda… ecco un petalo appassito e vicino dei boccioli che sembrano gli occhi di un bambino africano, che di petali secchi ne ha tanti nelle sue rose. Quel petalo giallo e morto è la fame che attanaglia tanti bambini laggiù, mentre noi ci soffermiamo ad ammirare le nostre rose superbe, i nostri agi opulenti. Bella la chiusura della poesia: quella rosa superba tanto ammirata il poeta la regalerà a un bambino dell’Africa, perchè anche lui possa sorridere e non avere cioè PIÙ fame !».